Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  luglio 21 Venerdì calendario

Biografia di Terence Stamp (Terence Henry Stamp)

Terence Stamp (Terence Henry Stamp), nato a Stepney (Londra, Inghilterra, Regno Unito) il 22 luglio 1938 (85 anni). Attore. Vincitore, tra l’altro, del premio al miglior attore al Festival di Cannes nel 1965 (per Il collezionista di William Wyler). «Io ho scelto di diventare attore per accarezzare il sogno che mi aveva inculcato mia madre portandomi a vedere i film con Gary Cooper. E quando, ragazzo, incontrai l’immagine di James Dean, la mia scelta era già compiuta: il cinema era diventato per sempre “la mia ragazza”» (a Giovanna Grassi) • «Il padre di Terence Stamp era capitano di un rimorchiatore; la famiglia viveva nell’East End londinese, vicino al porto» (Fabio Galvano). «“La povertà era di casa a Stepney, Londra. […] La mamma studiava legge di notte e recitava a scuola di giorno. Quando se n’è andata ho contattato gli amici di lunga data e scoperto che nessuno immaginava quanto fosse dura per noi la realtà: io e mio fratello Chris uscivamo sempre eleganti e puliti”. Chris Stamp, uno dei produttori più influenti nell’industria musicale inglese, era il fuorilegge di casa: “Nel quartiere lo chiamavano ‘il giovane gangster’”. Negli anni Sessanta ha prestato il fianco a Jimi Hendrix e lanciato gli Who, lavorando alla rock opera Tommy. “Ricordate i completi di Roger Daltrey? Merito del mio guardaroba. Anzi, ora rivorrei indietro una delle mie tutine rosa-glitterato… Di norma andavo in giro così: metà drag metà fattore dell’Ottocento”» (Filippo Brunamonti). «Il giovane Terence frequentò una scuola locale, senza mostrarsi molto interessato agli studi. Il suo primo impiego fu in un’agenzia pubblicitaria londinese. “Ero bravo nel mio lavoro – ricorda –. Cerco sempre di fare bene tutto”» (Galvano). «Da ragazzo guardando la tv imitavo i personaggi e dicevo di continuo “Io posso fare meglio di quello”. Ammiravo solo Laurence Olivier: per il resto ero arrogante, mi sentivo il più bravo di tutti. Mio padre era stanco delle mie fantasie: “Gente come noi non ha niente a che fare con quell’ambiente, piuttosto studia e pensa a un lavoro serio”, mi ripeteva. Quando mi sono iscritto alla scuola di recitazione ho lasciato casa e famiglia e per mantenermi ho fatto di tutto» (a Maria Pia Fusco). «A diciassette anni seppe di un concorso per borse di studio alla scuola di recitazione Webber Douglas: vi partecipò, vinse, e la via del cinema era aperta. Peter Ustinov, che stava cercando un giovanotto per la parte di Billy Budd nell’omonimo film, lo notò in una piccola produzione teatrale e gli offrì il primo contratto. “Terence era estremamente nervoso – ricorda Ustinov –, e presto cominciai a sentirmi come il capitano Vere, e mi resi conto che di fronte a me avevo il Billy Budd ideale”. Fu un grosso successo: l’interpretazione in quella pellicola valse a Stamp una nomina per l’Oscar, un assortimento di premi cinematografici internazionali e decine di offerte cinematografiche da Hollywood. “Peter Ustinov mi aveva insegnato una cosa importante: non dovevo accettare qualsiasi offerta, ma soltanto quelle che mi convincevano. Per questo motivo respinsi tutte le offerte di Hollywood e rimasi mesi senza fare altri film”. […] Dopo molte incertezze affrontò le cineprese per Term of Trial [nella versione italiana L’anno crudele – ndr], scomparso a gran velocità da ogni circuito cinematografico» (Fusco). «Come è stato lavorare al fianco di Laurence Olivier ne L’anno crudele (1962) di Peter Glenville? “Ero notevolmente impressionato perché lui era una leggenda, ma non faceva che ignorarmi. Così me ne sono fregato, della sua faccia, e a quel punto siamo andati d’accordissimo. Mi ha consigliato di non smettere mai di lavorare sulla voce: ‘Il tuo aspetto, con gli anni, si andrà deteriorando, ma la voce diventerà più potente’. Da allora non passa giorno che io non segua il suo consiglio [cfr. infra – ndr]. Ci ho guadagnato in profondità, e lo devo interamente a lui”» (Gérard Delorme). «Cominciò la lunga attesa per un film veramente “buono”, qualcosa di cui Terence potesse ritenersi soddisfatto. […] Al termine della lunga attesa William Wyler gli fece leggere il copione del Collezionista, il film che gli avrebbe dato una grande vittoria al Festival di Cannes. […] L’unico errore del regista fu, secondo Stamp, l’eliminazione nel montaggio finale di una scena con la Eggar. “Era la scena che condensava il significato di tutto il film: ero impotente, terrorizzato, e allo stesso tempo felice. C’era tutto nel mio sguardo”» (Galvano). «L’anno dopo Modesty Blaise – La bellissima che uccide – “Monica Vitti, travolgente, riusciva a farmi ridere anche la mattina all’alba” –, e ancora Via dalla pazza folla, e Poor Cow di Ken Loach. Tutti film di successo, legati ai fermenti di quegli anni, in cui Stamp interpretava personaggi ambigui, spesso negativi, psicopatici, maligni. Era l’attore del momento ed era riuscito a sconfiggere la sfiducia di suo padre» (Fusco). «Una vocazione a ruoli estremi: da angelo caduto a eroe dannato. Occhi di un azzurro trasparente, biondo, lineamenti delicati, la sua bellezza – famosa negli anni Sessanta, tanto perfetta da risultare quasi allarmante – ha destinato Terence Stamp a interpretare giovani tormentati sempre al limite della catastrofe o della salvazione» (Roberto Rombi). «Fellini ha significato la svolta della mia vita. Lui aveva un rapporto amichevole con Peter O’Toole: si vedevano quando veniva a Londra e Peter gli ripeteva “Voglio lavorare con te”, finché capitò l’occasione di Toby Dammit, uno degli episodi di Tre passi nel delirio. Fellini mandò la sceneggiatura a Peter, che, un mese prima delle riprese, una notte lo chiamò: “Quel Dammit è un vero bastardo, non voglio fare il tuo film. Goodbye”. Fellini chiamò un agente a Londra, chiese di mandargli un attore decadente, stropicciato, bastardo. Io avevo appena fatto un western, avevo i capelli lunghi, scuri, ero sfatto, fumavo molto, di tutto allora. Fellini venne all’aeroporto, mi guardò, scoppiò a ridere e mi chiese di rimanere». «Per Toby Dammit si preparò con impegno – “fu allora che smisi di fumare” – e con Fellini conobbe Roma, il cinema e i salotti. “Federico mi fece leggere la sceneggiatura de Il viaggio di G. Mastorna, anche se ero troppo giovane per il ruolo: lui voleva Mastroianni. Sarebbe stato un film geniale, la storia di un uomo che è morto ma non sa di essere morto e pensa di essere vivo. Mai dimenticata”». «C’è un episodio che le è rimasto impresso accaduto durante le riprese del film? “Primo giorno, prima organizzazione del set. Sono stato convocato sul set e accompagnato fino a un segno sul pavimento. Tutto è pronto, tranne me. Vivo quel momento di paura, quando il pensiero fa la sua comparsa inaspettata e non voluta. Colgo lo sguardo del regista e lo chiamo. Sembra còlto alla sprovvista, anche sorpreso. Indica se stesso. ‘Sì’, mimo con la bocca. Si fa strada attraverso la foresta di luci di Rotunno, con una grazia tranquilla. Sussurra nel mio orecchio ‘Dimmi’, ‘Tell me’. ‘Questa è la mia prima volta in un film italiano, un film di Fellini: il primo attore inglese a interpretare la parte principale per voi. Questo è il mio primo giorno, il mio primo ciak. Ho bisogno di istruzioni’. Senza interrompersi si china per avvicinarsi, la sua bocca quasi a toccare il mio orecchio. Posso sentire il suo respiro. ‘Sei un grande attore, giovane ma finito. La scorsa notte c’è stata la tua ultima esibizione come Macbeth all’Old Vic. Quando il sipario si è chiuso sei andato a una festa – ma in realtà era un’orgia. Si beve molto whisky, si fuma hashish, si sniffa cocaina e si fa sesso. Una bionda con grandi tette è una gran scopata e un grosso ragazzo nero ti sta fottendo. Per tutta la notte hai scopato, bevuto, sniffato. La mattina ti accompagnano fino a Heathrow per prendere un aereo per Roma per girare un western prodotto dalla Chiesa cattolica. Prima di salire in aereo qualcuno fa cadere una grossa pasticca di Lsd nella tua bocca. Ora sei qui’. Fu l’unica volta che gli chiesi un’indicazione”» (Nicola Bassano). «Federico mi aveva ribattezzato Terenzino Francobollo. C’è chi mi chiama ancora così in Italia». «A Roma conobbe anche Pasolini ed entrò nel cast di Teorema, interpretando il misterioso, enigmatico straniero che si insinua nella famiglia dell’industriale ed esercita su tutti un’ambigua seduzione. “Non c’è stato un vero rapporto con lui: era un uomo chiuso, rigoroso, e del resto sul set la mia attenzione era tutta per Silvana Mangano. Ero un bambino quando vidi Riso amaro e da allora lei diventò per me la donna per eccellenza. Fu lei a scatenare le mie prime fantasie sessuali”» (Fusco). «La prima volta che ci siamo incontrati Pasolini raccontò la storia del film. Quelle furono le ultime parole che mi rivolse. Durante tutte le riprese nient’altro. Ogni tanto succedeva che Laura Betti mi venisse vicino e mi sussurrasse indicazioni del tipo “Pier Paolo vorrebbe che, questo ciak, lo facessi in erezione”» (a Fulvia Caprara). «Poi mi sono accorto che quando non ero impegnato a girare mi riprendeva di nascosto. Cercava di cogliere ciò che ero, non ciò che facevo. Ho scoperto un approccio diverso, che consisteva nell’essere totalmente presente». «Il declino inizia nel ’71 con l’interpretazione di Arthur Rimbaud in Una stagione all’inferno di Nelo Risi. “Gli anni Sessanta erano finiti e con loro ero finito anch’io. Ricevevo offerte indegne, per me che avevo lavorato con i grandi. Decisi di lasciare il campo. Comprai un biglietto aereo per un giro del mondo: partenza da Londra, naturalmente prima classe”. Secondo le cronache pettegole in realtà fu un’altra la ragione della fuga. Lui che aveva vissuto storie d’amore con le donne più belle del tempo, da Julie Christie a Brigitte Bardot, non sopportava la rottura con la top model Jean Shrimpton dopo una relazione tumultuosa – tanto più che a lasciarlo fu lei. Oggi non smentisce, né conferma. Sorride: “Sono partito perché ero stufo di aspettare la telefonata dell’offerta giusta”. […] Come che sia, dopo i Sixities e Londra per Stamp i Settanta sono l’India» (Fusco). «È vero che a Fellini deve anche la scelta dell’India? “In una cena a casa di una contessa a Roma mi fece conoscere il maestro Krishnamurti, un piccolo indiano che diceva cose che non capivo. ‘Guarda quell’albero’: lo guardavo, lui sorrideva. ‘Guarda quella nuvola’. ‘Quando un’aquila vola non lascia tracce’. Aveva uno sguardo magnetico, dolcissimo. Mi sentivo inadeguato, troppo stupido per capire il senso delle sue parole, e il desiderio di andare in India per avvicinarmi alla sua filosofia mi è rimasto dentro. Perciò dico che nella mia vita e nel mio lavoro c’è un prima e un dopo Fellini”» (Fusco). «Il passaggio da un Ashram all’altro dura sette anni. Stamp cambia nome, diventa Swami, lontano dal cinema si immerge nel silenzio e nella meditazione, impara a nutrirsi con ciò che gli offre la terra. “Ero felice e quieto, avevo perso la cognizione del tempo. Seguivo corsi di ogni genere. Stavo studiando ‘tantric sexual experience’, ovvero come separare l’orgasmo dall’eiaculazione, quando arrivò un telegramma del mio agente, Richard Donner. Mi voleva in Scozia”. Il film era Superman [in realtà nel frattempo Stamp aveva già preso parte a qualche altra pellicola, tra cui Divina creatura di Giuseppe Patroni Griffi – ndr]: Stamp sarebbe stato il generale Zod, che si contrappone a Marlon Brando. L’incontro con Brando fu imbarazzante. “Ero appena arrivato, ancora vestito in arancione, stralunato. Brando mi fissava serissimo. ‘Sono stato in India’, mormorai per giustificarmi. E lui mi chiese: ‘Come sono le ragazze indiane?’”. […] Come attore, di nuovo non conosce pause» (Fusco). «Torna al cinema a metà degli anni ’70, ma solo nel 1984, con Il colpo (o Vendetta) di S. Frears, ritrova lo smalto della sua stagione migliore. Un gran numero di ruoli secondari (su tutti quello di Il siciliano, 1987, di M. Cimino) prima del ritorno al successo con la bizzarra commedia Priscilla – La regina del deserto (1994) di S. Elliott. Nel 1999 S. Soderbergh scrive appositamente per lui il noir sperimentale L’inglese» (Gianni Canova). «Tacchi alti, unghie laccate, rossetti vistosi in pieno deserto. Così appare nel film […] Priscilla, la regina del deserto. […] Vestito da donna dall’inizio alla fine, è un transessuale – signora elegante e un po’ manierata nell’intimità e sgargiante di piume e lustrini sul palcoscenico – che insieme a due travestiti attraversa il cuore dell’Australia, desertico e assolato, per portare il suo spettacolo di rivista nella lontana Alice Springs. […] “La prima reazione alla proposta di lavorare in questo film è stata la paura. Ma da troppo tempo rifiutavo parti che consideravo non adatte a me. Ora sono sicuro di essermi liberato da questo terrore”» (Rombi). «Per il mio ruolo ho cercato di immaginarmi nei panni di Silvana Mangano. Ho messo una lunga parrucca bionda e splendidi vestiti da sera… Mi son visto allo specchio e ho scoperto di essere sensuale quanto un vecchio cane rugoso». «Sono vanitoso. La sceneggiatura di Una canzone per Marion era meravigliosa, ma ero preoccupato: se faccio questo film tutti sapranno quanto sono vecchio, pensavo. Poi il regista mi ha detto che Arthur era ispirato a suo nonno e che suo nonno era bello. “Bello come te”, ha aggiunto. Così mi sono rassicurato». «In Una canzone per Marion, di Paul Andrew Williams, Terence Stamp interpreta un marito che accetta di cantare in un coro per amore della moglie. […] Il fatto di dover cantare […] vi ha intimidito? “Sì e no. All’inizio ero abbastanza preoccupato, ma dovevo prendermi una rivincita per il rimpianto provato quando rifiutai Camelot (1967), di Joshua Logan, per timore di non essere all’altezza di una commedia musicale. Quando ho saputo che Vanessa Redgrave, che in Camelot interpretava Ginevra, era stata ingaggiata per il ruolo di Marion, mentre io dovevo cantare e interpretare tale Arthur, ho pensato che il destino mi stava dando una seconda possibilità. Ho sentito che dovevo accettare, e così tutte le mie paure sono scomparse. La scena in cui canto è stata girata l’ultimo giorno. Non avevamo la possibilità di fare più di una ripresa e per me si è rivelato perfetto. L’esperienza è stata talmente soddisfacente che ho pensato di farne il mio ultimo film. Finché non mi hanno proposto una commedia a Toronto, The Art of the Steal. […] La pensione può attendere”» (Delorme). Tra le ultime pellicole da lui interpretate Big Eyes di Tim Burton (2014), Mistero a Crooked House di Gilles Paquet-Brenner (2017) e Ultima notte a Soho di Edgar Wright (2021) • «Negli spazi vuoti tra un lavoro e l’altro Stamp non è mai rimasto fermo: oltre ai ciclici viaggi in India, ci sono stati i libri […] e […] perfino il lancio di una linea di cibi dietetici» (Caprara) • Negli anni Sessanta «divideva la casa con Michael Caine, quando i Kinks immortalavano il suo legame con Julie Christie nella canzone Waterloo Sunset. Dice: “Le parole cantavano ‘Terry incontra Julie, Waterloo Station, ogni venerdì notte…’”» (Grassi). È stato anche sposato, dal 2002 al 2008, con una certa Elizabeth O’Rourke, più giovane di lui di oltre trent’anni. «“Ho avuto storie con le donne più desiderate della Terra. Ora mi avvicino alla morte: meglio darsi una calmata” dice. “Ho come trascorso la gioventù aggrappato al sellino di un cavallo da corsa”. […] Preferisce lo yoga al sesso: “Passata la fama di sciupafemmine, medito tutti i giorni, leggo le poesie di Rumi”. […] L’amicizia che ricorda con più affetto è quella con Lady Diana: “Quando ha accettato il mio primo invito a cena, le ho cucinato risotto coi funghi e scritto ‘Sua Maestà’ in bianco e nero sul piatto con due tubetti di crema di tartufo. Avevo cinquant’anni, lei venti. Un tè, una passeggiata, due chiacchiere ogni tanto. Una donna straordinaria”» (Brunamonti) • «Attore simbolo del cinema anni ’60, trasgressivo e bellissimo, inquieto e seducente» (Caprara). «Aplomb britannico, fortemente in contrasto con quell’aura di ribellismo che si è portato dietro per tutta la sua carriera» (Rombi) • «Dotato di enorme carisma scenico e di intense capacità interpretative» (Canova) • «La voce è per lui un elemento essenziale. “La curo da cinquant’anni, da quando al mio primo film un critico scrisse che la mia ‘esile voce’ era adatta al personaggio. Esile voce? Un duro colpo per me che volevo fare Iago e Amleto e tutto Shakespeare. Così mi sono messo a studiare finché gli insegnanti non hanno avuto più nulla da insegnarmi. Ora la uso nei trailer di molti film, dalla serie Twilight a The Hobbit. In una versione della Bibbia ho dato persino la voce a Dio. Si vede che gli esercizi di respirazione in India sono stati utili. Oggi la mia voce è molto riconoscibile, anche dai giovani, ed è un bel modo per entrare in contatto con le nuove generazioni di spettatori”» (Fusco) • «A differenza di Laurence Olivier avete preferito il cinema al teatro. Perché? “Sostanzialmente per ragioni di spontaneità. Le mie migliori interpretazioni sono state dirette da cineasti che, come me, sono dei seguaci del ‘buona la prima’. La prima ripresa è fondamentale in termini di energia e di originalità. È in quell’occasione che un attore dà il meglio di sé. Quando si comincia a riflettere sul modo di interpretare la scena diversamente, si è per forza di cose meno incisivi”» (Delorme). In un’altra occasione, intervistato da Leonardo Autera per il Corriere della Sera, Stamp ha più prosaicamente dichiarato di preferire il cinema perché «il teatro è più faticoso e io sono un po’ pigro» • «Sono un altro Terence Stamp. Oggi leggo la sceneggiatura, vado sul set, indosso un costume e sono il personaggio, senza alcuno sforzo. Direi che grazie ai silenzi dell’India sono diventato l’attore che ho sempre sognato di essere».