28 luglio 2023
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Biografia di Patrizio Peci
Patrizio Peci, nato a Ripatransone (Ascoli Piceno) il 29 luglio 1953 (70 anni). Collaboratore di giustizia. Ex terrorista (Brigate rosse). «Non credo più nella lotta armata. Ne voglio uscire per crearmi una nuova vita e impedire altri morti. Collaboro anche perché il generale Dalla Chiesa mi ha prospettato la possibilità di una legge in favore di chi collabora» (Peci il 1° aprile 1980, nel suo primo verbale da collaboratore di giustizia) • Arduo stabilirne l’effettiva data di nascita. Negli atti processuali reperibili su internet, infatti, essa oscilla tra il 29 luglio 1953 e il 29 maggio 1956 (data quest’ultima impossibile, se il fratello Roberto nacque il 2 luglio 1956), mentre, in base agli stralci di verbali giudiziari pubblicati su Lotta Continua del 5 luglio 1980, lo stesso Peci avrebbe dichiarato «Sono e mi chiamo Peci Patrizio, nato a Ripatransone il 9-7-1953». Nel memoriale Io, l’infame (a cura di Giordano Bruno Guerri, Mondadori, 1983) Peci esplicita solo il proprio anno di nascita: 1953 • «Una famiglia tranquilla, che nel 1962 s’era trasferita dalla collina verso il mare perché papà Antonio, muratore e capomastro, potesse lavorare nei cantieri che stavano trasformando San Benedetto in una località turistica. Mamma Amelia faceva la cuoca, e i quattro figli ancora bambini si ritrovavano spesso a giocare insieme: Patrizio, Ida, Roberto ed Eleonora. Tra i due maschi – Patrizio e Roberto, tre anni di distanza l’uno dall’altro – c’era un particolare affiatamento, che crebbe con l’adolescenza di fine anni Sessanta e primi Settanta. Patrizio faceva le sue scelte e Roberto gli andava dietro, influenzato dalle compagnie e dall’impegno politico del fratello maggiore. Sebbene a lui interessasse più il pallone» (Giovanni Bianconi). Studente dell’istituto tecnico-industriale Montani di Fermo (come già prima di lui Mario Moretti, nato a Porto San Giorgio nel 1946), «Patrizio da ragazzo aveva lavorato come barista presso il circolo nautico, iniziando di lì a poco, dopo l’attentato di piazza Fontana a Milano, a frequentare la Rotonda del lungomare di San Benedetto. La Rotonda era un luogo di aggregazione politica per molti giovani che avevano aderito alle manifestazioni studentesche del 1968» (Maurizio Petrocchi). «A San Benedetto, dove vivevano i Peci, la lotta armata era più di un’eco di quello che accadeva nelle grandi città industriali. Tutto è cominciato nel Natale del 1970, quando il motopeschereccio Rodi naufragò davanti alla costa della città e ci vollero giorni perché si decidesse di andare a recuperare i corpi dei naufraghi. L’armatore non voleva per motivi assicurativi, i giovani della sinistra cittadina, capeggiati da un agguerrito gruppo di Lotta continua, bloccarono tutto per due giorni: barricate sulla statale e alla stazione ferroviaria, assalti alle sedi di Assindustria e del Movimento sociale italiano» (Mario Di Vito). «Alla protesta aveva preso parte anche il giovane diciassettenne Patrizio Peci» (Petrocchi). «Fu la scintilla che portò Patrizio Peci a una militanza sempre più estrema, che affascinava Roberto e lo spingeva nella stessa direzione. Anche nella provincia marchigiana la violenza aveva cominciato a coniugarsi con la politica, ed essere antifascisti – ad esempio – significava picchiare i fascisti; Patrizio era uno che lo faceva con convinzione, insieme ad altri, e Roberto lo seguiva. […] A forza di assaltare fascisti e bruciare macchine, anche dei professori del liceo contrassegnati da quel marchio, Patrizio Peci si ritrovò ad avere a che fare con le armi, e con un’idea sempre più radicale della militanza violenta. Pensava che prima o poi si dovesse arrivare a usare pistole e mitragliette. Era riuscito a procurarsene qualcuna, e a entrare in contatto con persone collegate alle Brigate rosse. Nel 1974 andò a Milano, dove incontrò un capo dell’organizzazione, e si ripresentò a San Benedetto con l’idea di formare una “colonna marchigiana” delle Br» (Bianconi). Nell’arco di pochi anni, passò così da Lotta continua alle Brigate rosse. «Insieme ad altri compagni Patrizio aveva […] compiuto le prime azioni armate con la sigla dei Pail, Proletari armati in lotta, oppure Mao, Movimento armato operaio, “gruppo Joseph Stalin”. Dopo tornò a Milano, a lavorare in un piccola fabbrica dell’hinterland e a conoscere altri brigatisti rossi, con i quali attaccò una caserma dei carabinieri impugnando una pistola calibro 22. Ricomparso nelle Marche, a ottobre del 1976 utilizzò la stella a cinque punte delle Br per rivendicare l’irruzione nella sede di Ancona della Confapi, l’associazione dei piccoli industriali. Cinque uomini armati e coi volti coperti dai passamontagna entrarono negli uffici dell’associazione, nel centro della città. Legarono un’impiegata, imbrattarono i muri con scritte inneggianti alle Brigate rosse e alla rivoluzione. Portarono via schedari e documenti. In una cabina telefonica lasciarono il comunicato: “La Confapi è organica al processo imperialista dello Stato delle multinazionali. Attaccare loro è attaccare una parte importante dello Stato, è portare l’attacco al cuore dello Stato”. A quell’assalto guidato da Patrizio partecipò anche Roberto, che non voleva dare una brutta impressione di sé al fratello maggiore. Durante l’azione, mentre i compagni eseguivano la “perquisizione proletaria”, sentì l’invocazione dell’impiegata prigioniera: “Ho paura, non fatemi del male”. “Io ho più paura di te”, le rispose a mezza bocca Roberto, per tranquillizzarla. E per tranquillizzarsi» (Bianconi). «Chi l’ha convinta a trasformarsi in un ribelle della società che spara? “Onestamente devo dire nessuno. La maturazione è stata mia. Io ho scelto la mia strada”» (Enzo Biagi). «Dopo l’attacco alla Confapi, che suscitò grande clamore ad Ancona e dintorni, Patrizio continuò a trafficare con le armi. Alla fine dell’anno aveva raccolto qualche pistola e un mitra, che nascose in una casa nella stessa strada dove abitava la famiglia Peci, di cui suo padre aveva le chiavi: il proprietario, che veniva solo durante le ferie, gliele aveva lasciate perché c’erano dei lavoretti da fare, e Patrizio se n’era impossessato. Dentro un armadio aveva occultato il suo piccolo arsenale, che però fu scoperto dal padrone di casa, tornato a San Benedetto per le feste di fine d’anno del ’76. Appena vide le armi chiamò i carabinieri, che si presentarono subito a casa Peci. Patrizio non c’era: trovarono Roberto e lo portarono in carcere. Ci rimase tre giorni, il tempo di chiarire che lui con quel deposito clandestino non aveva niente a che fare. E di rendersi conto che della lotta armata non voleva sapere altro. Non faceva per lui, tanto più ora che Patrizio se n’era andato e non sarebbe più tornato. Era scappato per evitare l’arresto, e da lì cominciò una latitanza che lo avrebbe portato prima a Milano, a casa di un ex partigiano, poi a Torino, dov’era diventato un dirigente della colonna delle Br. Ricercato per una lista di reati che si allungava di continuo. Partecipava alle inchieste con cui venivano selezionati i bersagli da colpire, li seguiva nei loro movimenti, studiava i percorsi; e poi, insieme ai suoi compagni, andava ad appostarsi fuori dalle case, la mattina presto, per colpirli. “Azzoppati” o uccisi. Capireparto delle officine, dirigenti di fabbrica, esponenti politici locali, l’avvocato Fulvio Croce e il giornalista Carlo Casalegno» (Bianconi). «“Ho otto imputazioni di omicidio: non ho partecipato a tutti gli omicidi, ma ho preso la decisione di eseguirli; a quattro invece ho partecipato direttamente”. Ha partecipato agli omicidi di chi? “All’omicidio del maresciallo di polizia Rosario Berardi, del giornalista Carlo Casalegno e altri ancora”. […] Lei ha ucciso? “Ho partecipato alle azioni attivamente, ma non ho mai sparato per uccidere”. […] Come ha fatto a diventare un capo? “Grazie all’esperienza e all’impegno, sapevo dirigere l’organizzazione abbastanza bene e avevo imparato un po’ tutto dal punto di vista militare”. […] Come comunicavate tra voi? “Fissavamo degli appuntamenti, generalmente in una piazza. Non ci si presentava col proprio nome: se ne usava uno inventato”. Lei come si chiamava? “Io ho avuto due nomi di battaglia: il primo Rodolfo, poi quando andai a Torino Mauro”» (Biagi). «Patrizio Peci venne arrestato dai carabinieri di Torino il 18 febbraio 1980 insieme con Rocco Micaletto. Dopo poco più di un mese di isolamento in una camera di sicurezza della caserma di Cambiano, vicino a Torino, il terrorista chiese un colloquio con il generale Dalla Chiesa. Qualche ora dopo cominciava davanti al giudice istruttore Gian Carlo Caselli la prima e più sconvolgente testimonianza dall’interno delle Brigate rosse» (Cesare Martinetti). «Inizialmente il ruolo di Peci è quello di confidente dei carabinieri, non ancora collaboratore di giustizia. In base alle sue confidenze i CC muovono a colpo sicuro e operano alcuni arresti a Torino e Biella. […] Le dichiarazioni confidenziali di Peci proseguono e si deve a lui l’indicazione a Genova, in via Fracchia, di una base Br dove la notte del 28 marzo 1980 irrompono i CC. Nella sparatoria uno di loro rimane gravemente ferito e quattro brigatisti vengono uccisi. Con il suo tragico e doloroso carico di morti la sparatoria di Genova mette profondamente in crisi Peci, che vorrebbe mollare tutto. Ci volle un gran fatica per convincerlo a non abbandonare la strada della verità, anche se dura. […] Nel corso di un trasferimento al carcere di Pescara, Peci fa presente ai CC di voler essere interrogato dalla magistratura. Avvertiti alle 6 del mattino, subito ci recammo (eravamo in tre) a Cambiano, un comune della provincia torinese. Per 48 ore filate ci chiudiamo con Peci in una stanza della caserma del posto. Pochi panini e molti caffè, ma sempre dentro l’ufficio. Volevamo registrare tutto quel che Peci sapeva nel più breve tempo possibile, per poterlo “sviluppare” sfruttando al massimo il fattore sorpresa. […] Ogni foglio di verbale compilato veniva consegnato al generale Dalla Chiesa, che aspettava fuori come… un padre in attesa di un parto. Con il nostro coordinamento, avevano così inizio in tempo reale le attività di riscontro e approfondimento delle dichiarazioni di Peci, che porteranno all’arresto di tutti i brigatisti della colonna torinese e non solo. […] I racconti dettagliati di Peci non sono più confidenze inutilizzabili ai fini del processo, ma vere e proprie prove, valide in ogni sede processuale. La password per entrare nei segreti delle Br e smontarli. Causa, inoltre, di un’emorragia inarrestabile per il pentimento a catena di moltissimi militanti. Peci accenna anche a un “piellino” di Torino in procinto di entrare nelle Br. Anche costui (identificato in Roberto Sandalo e arrestato) collabora. E parte la slavina di pentiti che distruggerà Prima linea. Le confessioni di Peci risultano pertanto fondamentali anche per la sconfitta di Pl» (Gian Carlo Caselli). Un anno dopo, l’atroce vendetta di Giovanni Senzani, allora a capo delle Br. «Roberto Peci, antennista, fratello minore di Patrizio, fu sequestrato quando aveva 25 anni da un commando di terroristi nella sua città, San Benedetto del Tronto. Era il 10 giugno 1981: una vendetta trasversale in stile mafioso. […] Durante il sequestro fu sottoposto a un processo-farsa, indotto a dichiarare cose non vere davanti a una telecamera, con il miraggio della liberazione. […] Dopo essere stato tenuto prigioniero 55 giorni (non casualmente lo stesso periodo del rapimento Moro), venne ucciso a colpi di pistola alla periferia di Roma il 3 agosto 1981. […] Il ritrovamento dei corpo di Roberto Peci, […] in una casupola diroccata non distante dall’ippodromo delle Capannelle, svelò tutta la ferocia delle Brigate rosse. […] Una scena agghiacciante, che provocò un malore al sostituto procuratore Macchia: il corpo di Peci era supino, ammanettato, dilaniato da una pioggia di proiettili alla testa, al petto, alle braccia. Su un cartone la scritta: “Morte ai traditori”. Poco più in là immondizia e materassini usati da prostitute per appartarsi con i clienti» (Fabrizio Peronaci). «Una vigliaccata che non perdonerò mai, una vigliaccata che volevo vendicare fuggendo dal carcere, se un giorno non avessi incontrato in cella padre Adolfo Bachelet, un gesuita fratello del docente ucciso a Roma dalle Br. Mi ha parlato a lungo. Un uomo straordinario. Mi ha fatto capire l’inutilità di versare altro sangue». Poi i processi. «Patrizio Peci è morto il 18 maggio 1983. Patrizio Peci ero io. Il 18 maggio 1983, a Torino, l’uomo conosciuto con il nome di Patrizio Peci entrava in un’aula del tribunale di Torino per testimoniare contro i suoi ex compagni, principale teste d’accusa nel processo contro le Brigate rosse. Fino a quel giorno ero stato un brigatista, dopo di allora divenni il più feroce nemico dei brigatisti, l’uomo che aveva reso possibile lo smantellamento della più importante organizzazione armata degli anni di piombo. Peci “l’infame”. […] Peci, l’ex combattente convinto che la guerra sia finita». «“Cadavere ambulante”, “zombie”, “carogna”, “verme immondo”, “pidocchio infame”: nel maggio 1983 gli imputati del processo contro la colonna torinese apostrofarono così Patrizio Peci. […] Gli “infami” erano colpevoli di immoralità e basta: per aver tradito la causa rivoluzionaria e per aver venduto i compagni» (Monica Galfré). «Per le sue colpe Peci ha subìto condanne per poco più di dieci anni di carcere. Un anno per organizzazione e partecipazione alla banda armata, otto anni per assassinî e ferimenti, un altro anno per una rapina compiuta a Torino. Pene comminate con l’uso dotale dei “premi” previsti per i pentiti. […] Dopo aver trascorso in carcere la metà circa della sua condanna totale, ha potuto godere della libertà condizionale» (Martinetti). Iniziò allora la sua seconda vita, «in silenzio e senza identità. Più precisamente con un’altra identità, rimasta sconosciuta. Ma con la stessa faccia. Lui, la plastica per cambiarsi i connotati, non l’ha mai voluta fare. Ha un lavoro “equivalente a quello di un operaio”, non ha scorta né stipendio da protetto, “mai avuti questi privilegi”, e un fisico che, dicono, se si escludono i chili in più, non è poi così cambiato [articolo del 2008 – ndr]. […] “La plastica non sarebbe servita. Uno come me, con un’esperienza da clandestino nelle bierre, sa che per sparire il miglior nascondiglio è vivere tra la gente”. […] “Ormai sono un’altra persona, che vive e fa cose diverse, che ha una famiglia, un figlio”. […] La moglie, l’ha conosciuta in carcere, per corrispondenza. “Mi sono sposato poco dopo essere uscito di galera, è stata una scelta. Rientrare nella legalità, avere un’altra vita. Il matrimonio, un figlio, il lavoro, la normalità… era quello che cercavo. Mia moglie ha sempre saputo chi io fossi, e ho sempre condiviso con tutti i miei parenti quello che stavo diventando, quello che ho fatto”. […] La famiglia e quella parola ricorrente, “normalità”, che Peci usa perfino da lente per guardare il figlio. […] “Non gli avevamo detto nulla su di me: l’ha scoperto da ragazzino quando vide una mia foto su un giornale. Alla fine ammisi di essere io quello e, insieme a mia moglie, piano piano gli abbiamo raccontato tutto. Non gli ho mai chiesto di mantenere il segreto sulla mia vera identità, ma lui lo ha fatto automaticamente e se ne è assunto la responsabilità. Ha capito la buona fede del padre”» (Silvana Mazzocchi). Nel 2012, anno cui risalgono le ultime informazioni note, Peci viveva e lavorava tra Lombardia e Veneto • La nipote Roberta Peci, di cui la compagna del fratello Roberto era incinta al momento del suo assassinio, ha detto di provare per lui «la stessa indifferenza che ho per Giovanni Senzani. Non ho interesse ad avere sue notizie, né a incontrarlo». Qualche anno prima, intervistato da Oggi, Peci aveva dichiarato: «Mia nipote di suo padre non sa niente. Non è vero quello che pensa o che le hanno fatto credere. Non è vero che c’è stato un fratello infame e uno buono, come Caino e Abele. È un falso storico, avallato purtroppo dal libro di Walter Veltroni L’inizio del buio, che ha scambiato la realtà con la sua immaginazione. […] Roberto era buonissimo ma è sempre stato d’accordo con tutte le mie scelte. […] Mia nipote, queste cose, non le sa. Sono pronto a spiegarle tutto se vuole. Solo io le posso raccontare chi era suo padre» • «Generale Dalla Chiesa, […] lei pensa […] che Peci abbia parlato per una “crisi di coscienza”? “Una crisi di coscienza che lo ha visto di fronte a una valutazione, direi onesta, di quella che in quel momento era la disarticolazione che noi avevamo creato in seno all’organizzazione eversiva”. […] Lei crede che i brigatisti che confessano siano sinceri? “Io non ho motivi né ho avuto motivi per pensare diversamente”» (Biagi) • «Non mi sono pentito della scelta di collaborare, ma […] vivo con un enorme rimorso. Quella decisione è costata la vita a Roberto, mio fratello, assassinato dalle Brigate rosse. Una vendetta trasversale, di stampo mafioso. […] Se avessi immaginato che sarebbe finita così, non mi sarei dissociato». «Io sono l’unico. L’unico che negli anni di piombo abbia abitato entrambi i gironi dei dannati: sia fra le vittime sia fra i carnefici, sia fra chi ha amministrato la morte sia fra chi ha conosciuto la morte, quella di una delle persone più care, quella che ti fa conoscere il senso della perdita irrevocabile. […] Non potrò perdonare mai. Mai. Perché non si può perdonare quello che non ha senso» • «“La mia dissociazione fu un po’ quella di tutti. Non fu lo Stato a distruggere le Brigate rosse: siamo noi che ci siamo autodistrutti. La nostra strategia non era giusta, non lo era la violenza in Italia, in quelle condizioni. Non lo era aver provocato tanti danni, morte e dolore”. Progetti per il futuro? […] “Vorrei invecchiare tranquillamente”» (Mazzocchi). «Dopo tutte queste esperienze, che idea ha della morte? “Tremenda”. E della vita? “Bellissima. Secondo me vale la pena viverla fino in fondo”» (Biagi).