Corriere della Sera, 14 marzo 2023
Su "L’invenzione di Milano. Culto della comunicazione e politiche urbane" di Lucia Tozzi (Cronopio)
Più controversa della vera ricetta della carbonara, più divisivo del dibattito sulle buche di Roma, è il giudizio su Milano: una città moderna, cosmopolita, vicina all’Europa o una città inquinatissima e costosissima, sostanzialmente invivibile? Si va a ondate: negli anni ‘80-90 l’unica cosa bella di Milano era il treno per Roma, poi con l’Expo 2015 è diventata un posto bellissimo e internazionale, con il Covid è tornata una città per appestati e ora c’è un picco di contumelie che partono dal caro affitto e si allargano a vasto raggio.
Il punto di partenza del dibattito, ma l’hanno letto in pochi, è un saggio militante di Lucia Tozzi, uscito da Cronopio, intitolato «L’invenzione di Milano», che gronda livore contro la gentrificazione e il maledetto capitalismo cognitivo che erode gli spazi benedetti del «conflitto». A cascata sono arrivati i militanti anti Expo del Fatto Quotidiano, da Gianni Barbacetto alla figliol prodiga Selvaggia Lucarelli e perfino Nando Dalla Chiesa, per il quale i marciapiedi sconnessi (altrove pare ci sia il prato all’inglese) sono «la prova dell’esistenza della ‘ndrangheta». Del resto, solo poche settimane fa avevamo raccontato dell’articolo dell’Espresso intitolato: «Abitare a Milano è un incubo da far impallidire Orwell». Mancano solo le cavallette.
«Se non critichi Milano – scrive il bresciano pendolare con Roma Michele Masneri – non sei nessuno». Ed è vero che a furia di criticare il brand Milano, anche l’invettiva contro la città è diventata un brand, un segnale di riconoscimento, un buon modo per sentirsi di sinistra e per lucrare consensi facili a destra, che non governa qui dai tempi di Letizia Moratti, e soprattutto a sinistra, quella sinistra che odia il Pd, partito che non a caso in città riscuote voti e consensi.
Lasciamoci subito alle spalle le diatribe a basi di luoghi comuni, la nebbia, lo smog, il traffico, la modernità, l’apericena, i lounge, il pokè. Per un quadro generale del dibattito e i pareri di Paolo Cognetti, Enrico Bertolino, Maurizio Cucchi e molti altri, rimandiamo al pezzo sul Corriere «Processo a Milano», di Fabrizio Gugliemini e Laura Vincenti.
Proviamo invece ad analizzare il libro di Tozzi, che Masneri definisce «il libretto rosso dei Nuovi Milanesi Indignati» (per gli indignados c’è anche un podcast, che fa molto Milano, «Sottobosco orizzontale»). Napoletana, l’autrice si è trasferita all’Isola giusto in tempo per osservare con orrore la gentrificazione e la nascita del vicino quartiere-ghetto Porta Nuova, con il suo ecomostro, il Bosco Verticale. Punto di partenza del suo libello, è che a Milano sia in atto da anni una poderosa operazione di marketing, che punta a diffondere «una percezione positiva del benessere e della qualità della vita».
Operazione riuscita, anche perché ha coinvolto la cittadinanza. Con una sorta di lavaggio del cervello, si è riusciti a convincere i milanesi di vivere in un posto bellissimo: «Il buon umore dei cittadini è diventato un elemento preziosissimo». La «più grande operazione di propaganda della storia recente» è stata fatta da una sorta di invisibile spectre: «La critica politica, culturale e sociale è stata atrofizzata, censurata, gli autori allontanati dalle testate». I ghisa morali della milanesità hanno messo a tacere i giornalisti che osavano dir male. Qualche cronista impavido ha resistito al rastrellamento, ingollando di malavoglia dim sum e mondeghili, e ha lanciato qualche strale, riuscendo a denunciare «l’uso politico della retorica emozionale» e «la narrazione drogata», come la chiama Barbacetto.
«L’invenzione di Milano», però, va presa sul serio. Secondo Tozzi, «Milano si è autoproclamata capitale italiana della democrazia partecipata e del progressismo», ma non è affatto così. Non bastano qualche chilometro di pista ciclabile , la retorica della smart city e dell’innovazione, i coworking, i fablab, gli eventi pseudoculturali, i continui festival e le week dedicate a design, moda, cinema, arte, letteratura. La comunicazione ha preso il sopravvento sul contenuto. L’ideologia forgiata dal capitale ha creato, attraverso la gentrification, aree ricche, con spazi verdi tutti dedicati ai più abbienti (greenwashing) e ha scacciato verso l’esterno la gran parte della popolazione. Expo2015 è stata «una battaglia vinta del grande capitale contro le classi medie e gli indigenti». I milanesi hanno «imparato a percepirsi come capitale umano urbano».
Tozzi descrive una sorta di accerchiamento, avvenuto con la complicità attiva delle giunte Pisapia e Sala, in piena continuità con Moratti. Perno centrale, l’economicizzazione di ogni aspetto della vita cittadina, che passa attraverso «il dogma neoliberista della sostenibilità economica di welfare e cultura». In sostanza, per tutte o quasi le attività sociali e culturali in città si è scelto — e magnificato – il modello della partnership pubblico-privato.
In teoria, bene: il pubblico decide, il privato contribuisce, in cambio di visibilità. In pratica, malissimo, secondo Tozzi. Perché l’intervento dei privati è diventato pervasivo e decidente. Il Pgt (Piano di governo del territorio), portato a compimento da Carlo Masseroli (giunta Moratti) «decreta l’indebolimento del Comune come ente decisore degli assetti territoriali», derubricandolo a facilitatore. Il ragionamento politico viene così subordinato alla «mediazione tra interessi privati e contingenti, basati su puri rapporti di forza». E così, invece di «lottare per l’espansione del finanziamento pubblico e diretto alla cultura, si esige che la cultura diventi economicamente sostenibile».
A latere, c’è l’assegnazione degli spazi comunali inutilizzati attraverso bandi pubblici, decisa per 1200 luoghi nel 2012 dall’assessore Daniela Benelli (giunta Pisapia). Bene, no? No, perché così c’è la «neutralizzazione del dissenso», attraverso la «trappola della legalizzazione». Vengono «irregimentati gli occupanti, gli attivisti e gli irregolari, sulla base di uno scambio»: noi non vi sgomberiamo, vi diamo gli spazi, in cambio rinunciate al conflitto. A seguire, quella che in un libro di Marco Perucchi e Paolo Tex è chiamata la «foodification».
Siccome gli spazi pubblici sociali e culturali devono sopravvivere economicamente, ecco «l’ibridazione degli spazi», e la nascita di adiacenti bistrot, ristoranti e bar. E via con le critiche a luoghi «costantemente celebrati» «come la Cascina Cuccagna o Rob de Matt (ristoranti con ampi spazi all’aperto e stanze per mostre, incontri e microattività sociali), CasciNet (bar, orti urbani), il Cinemino (sala cinema amatoriale con lucroso bar), Gogol & Company (libreria-bar molto social), il mercato Comunale del Giambellino (con ristoranti ed eventi), la Balera dell’Ortica (nota per gli arrosticini) e persino centri sociali-culturali veri e propri come Macao o presunti come il Tempio del Futuro Perduto (più noto per le feste e i cocktail gourmet che per la linea politica e culturale)».
Tutti posti di cui, sinceramente, eravamo e siamo abbastanza contenti, se non proprio fieri (ci aggiungiamo Mosso, in via Padova, gestito dalla cooperativa Olinda). Non potevano mancare accenni sarcastici a panificatori sociali e bio, birre artigianali e vini naturali e al pubblico anestetizzato e conformista che girovaga per i quartieri trendy.
La furia iconoclasta di Tozzi non risparmia neanche le manifestazioni, il FuoriSalone, Piano City e Book City che – con la creazione di Zona Tortona, Brera District Design, Nolo e Soupra (South of Prada) – parteciperebbero del disegno propagandistico. Le nuove istituzioni, poi, non ne parliamo: Pirelli HangarBicocca, Fondazione Prada, Mudec, Base. Tutte creature paracommerciali, partnership con privati che finiscono per sancire la fine dei finanziamenti pubblici e dell’era keynesiana del welfare pubblico.
In realtà, soldi arrivano da Stato e Comune (ed Europa). Ma non nei posti giusti, per Tozzi. Solo a grandi istituzioni: 10 milioni alla Triennale per il Museo del Design e della Fotografia; 17 milioni per un Museo nazionale della resistenza a Porta Volta; 29 milioni per ampliare il Museo del ‘900 a piazza Duomo; 6,5 per il Mad, Museo dell’arte digitale a Porta Venezia; 101 per resuscitare il grande progetto mitterandiano della Beic, la Biblioteca europea di Porta Vittoria.
Insomma, per Tozzi, la manovra degli ultimi anni a Milano è stata quella di favorire i gruppi privati, ghettizzare i poveri e le periferie, trasformare i cittadini in stakeholder (portatori di interesse), neutralizzare il conflitto e comprare la resistenza militante a suon di legalizzazioni e partnership.
Alla fine del libro, ma pure prima, si viene sopraffatti da un sentimento duplice. Da una parte la consapevolezza che molte delle questioni sollevate, in modo molto meno virulento, meno radicale e meno schematico, potrebbero essere riferite non solo a Milano ma al modello di sviluppo scelto dall’Occidente (si chiama capitalismo) e delle grandi città. Dall’altra, la rivelazione dell’enorme mole di attività e di cambiamenti che sono in corso da anni e non accennano a interrompersi a Milano. Un confronto con altre città è impietoso, a favore di Milano, in termini di rigenerazione urbana, creazione di spazi pubblici e verdi, attivismo sociale e civico, partecipazione, innovazione, vitalità, riqualificazione di aree dismesse e periferie. Con tutti i limiti (o alcuni di questi) evidenziati.
La vera questione, centrale, resta quella dei costi, della sostenibilità per le fasce di popolazione meno abbiente, della «londrizzazione» di Milano. Qui, più che mettere in discussione il modello di sviluppo e le partnership private, servirebbe ribadire la necessità di un’azione pubblica più incisiva. Bisognerebbe ripensare gli oneri di urbanizzazione, che sono tra i più bassi in Europa, un housing sociale vero, gli affitti calmierati, l’edilizia popolare.
Anche senza geremiadi apocalittiche, anche senza evocare il Franco Fortini che già 30 anni fa lamentava la dissoluzione dell’identità di Milano, anche senza troppe ironie banalotte sugli «ape» e i pokè, il glamour e «le piazze aperte», gli street artist e il luxury green. Quanto alla Selvaggia Lucarelli che dichiara «finito l’incanto» con la città, dispiace. Come dispiace che non riesca a trovare in affitto una casa adatta alle sue esigenze «per meno di 3000-4000 euro» (ma davvero?).
L’affermazione «a Milano non funziona nulla», titolo di prima del Fatto, invece fa ridere. Ma il brand degli indignati deve essere alimentato in continuazione e le iperboli funzionano sempre. Anche se, dimenticavamo, c’è «una narrazione egemone» e i cronisti che parlano male di Milano «vengono cacciati» (e presumibilmente deportati a Roma).