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 2023  agosto 01 Martedì calendario

Il santo moro stregò Palermo

«Feci con la reliquia il segno della Croce sopra il petto del figliuolo il quale veramente et ingenuamente giudicai essere morto per la pallidezza del volto e la freddezza delli membra. Però signato che l’hebbi, posso dire che il fanciullo resuscitò e tornò da morte in vita, poiché subito immediatamente diede un grido e cominciò a piangere un pochetto». Era una mattina di gennaio del 1624, testimoniò fra Giovanni da Messina al processo per la beatificazione, e giurò che sì, gli era bastato posare quel pezzetto di saio di Fra Benedetto sul bimbo di tre anni appena defunto e tutti intorno avevan preso a piangere e gridare al miracolo.
Come dubitarne? Furono duecentoventitré, racconta la storica Giovanna Fiume, autrice del libro Il Santo Moro. I processi di canonizzazione di Benedetto da Palermo, edito da Franco Angeli, gli uomini e le donne tra i quali dieci medici, trentanove frati, dodici terziarie e dodici preti che accorsero a dare testimonianza davanti alla commissione ecclesiastica delle stupefacenti virtù di quello che il popolo palermitano aveva già fatto «santo subito». E vennero catalogati 90 miracolati per 44 tipi di guarigione: «13 casi di paralisi degli arti, 10 di morti resuscitati, 9 di ernia, 7 di idropisia, 7 di cecità, 6 di fistole e posteme, 6 di complicazioni del parto, 5 di scrofole...» E via così. Eppure ci vollero oltre due secoli, dalla morte nel 1589 al 1807, perché il fraticello siciliano, beatificato nel 1743, fosse dotato ufficialmente, con bolla papale, dell’aureola già da tempo collocata in tutte le immagini iconografiche. A partire da quelle in Sudamerica dove El Santo Negro è da sempre tra i santi cattolici più popolari e amati. Al punto che la notizia dell’incendio che ha devastato nei giorni scorsi la chiesa palermitana che ospitava le reliquie del santo, cioè il convento di Santa Maria di Gesù, sulle pendici del Monte Grifone su cui svetta appunto il celebre Cipresso di san Benedetto, uno dei più antichi d’Italia, sopravvissuto alle fiamme, ha toccato il cuore di milioni di fedeli di mezzo mondo, da Cuba alle Filippine.
Ma partiamo dall’inizio. Nato nel 1524 a San Fratello, sui Nebrodi in provincia di Messina, Benedetto era figlio di due dei molti schiavi africani finiti in Sicilia ai tempi della «tratta barbaresca» che nel Mediterraneo coinvolse per lo storico Robert Davis complessivamente, sull’una e l’altra sponda, oltre un milione di persone. Il padre Cristofalo «vaccaio e huomo da bene» apparteneva alla famiglia Manasseri, la madre Diana alla famiglia Larcan e, stando alla «istoria» elaborata via via da agiografi quali Antonino Randazzo, erano «discendenti de Etiopia» ma «benché fossero negri furono bene nutriti et erano buoni cristiani et timorosi di Idio». Al punto che il ragazzo, a vent’anni, conosciuto casualmente un eremita francescano «già in fama di santità», Geronimo Lanza, scelse di lasciar tutto e seguirlo in varie peregrinazioni fino a indossare il saio e diventare terziario (quelli che «stanno nel mondo») nel convento appunto di Santa Maria di Gesù. Dove, pur avendo compiti umili come quello del cuoco, si guadagnò evidentemente tra i più umili la fama di uomo di gran fede in contatto direttamente con «lassù», tanto da esercitare intorno un fascino impensabile. Tanto più, allora, per un nero descritto, per la candida purezza religiosa, con parole estasiate: «Il nostro santo nero è bianco in Dio».
Certo è che con la sua fama di santità il fraticello conquista Palermo al punto che, scrive Giovanna Fiume, «già nel 1608 si vendono in città le sue immagini e nel 1611 l’Inquisizione ne autorizza i ritratti «con gli splendori sul capo» finché nel 1562 il Senato palermitano «decide di annoverare il frate, non ancora canonizzato, tra i santi patroni cittadini» e chiede al Papa di riprendere e accelerare il processo di beatificazione. E dalla Sicilia spagnola il nome del «santo schiavo e nero» si irradia e dilaga in tutto il mondo coloniale cattolico, soprattutto spagnolo e portoghese. Fino a guadagnare al poverello d’origine africana, come ricorderà sul «Corriere» Vincenzo Consolo, una serie di definizioni: «El negro mas prodigioso» e «Moro etiope, Giglio nero, Fiore esotico, Idiota erudito, Ignorante sabio, Negrillo precioso, Varon insigne, Prodigioso Negro de los Cielos…».
Inarrestabile
Dalla Sicilia spagnola la fama del «Giglio nero» dilaga in tutto il mondo coloniale cattolico
Non solo, va detto, per la statura dell’uomo di fede. Ma perché, spiega la storica palermitana, era l’esempio di virtù giusto da additare a tutti gli schiavi, i neri, i servi dei padroni: «L’esempio di uno schiavo ubbidiente, pio, operoso e sempre sorridente» nella certezza che, per quanto il mondo sia crudele e la schiavitù spaventosa, ogni ingiustizia, ogni prepotenza, ogni sopruso sarà comunque compensato dal Paradiso conquistato sulla «strada dei patimenti». E tanto sfonda questa idea nel mondo coloniale che a un certo punto nel 1716, davanti alle perplessità di una parte della Chiesa che non vede di buon occhio la venerazione per san Benedetto e insieme certi residui di antichi culti africani, padre Alessio della Solitudine diffida i perplessi: «La veneratione degli Ethiopi Christiani è al sommo grado (…) per essere questo santo della loro Natione e riconoscere che anche loro possono essere santi: i padri pongono il nome di Benedetto ai loro figli per meglio eccitarli alla devozione» e se questa fosse abolita i neri supporrebbero che «la proibizione fusse promossa ad onta e disprezzo dei medesimi, come di color negro, o pure si darebbero a credere che nessuno della natione negra potesse arrivare al grado di santo».
Una tesi che dai e dai, sia pure altri decenni dopo, passò. E ancora oggi san Benedetto, per gli iberici san Benito, è venerato non solo a Buenos Aires dove c’è appunto la municipalità che prende il nome dalla Abadia San Benito de Palermo (il quartiere dove viveva Jorge Borges) ma in tutto il Sudamerica, dal lago di Maracaibo in Venezuela al Nordeste brasiliano, dove san Benito è anche il Santo della liberazione, dell’allegria, del ballo.
Resta un po’ indietro, piuttosto, proprio a Palermo. Dove tutti gli onori popolari sono riservati a santa Rosalia. Che di celebrazioni fastose ne ha addirittura due. Il Festino di santa Rosalia che ha appena celebrato a metà luglio il 399° anniversario della fine della peste del 1624 e la salita (la celeberrima «Acchianata») al Santuario del Monte Pellegrino dove stava secondo la leggenda la mitica grotta che nel XII secolo avrebbe ospitato la giovine pulzella in fuga dallo sposo che le aveva procurato il padre. Un santuario di oro luccicante. Degno d’una santa bianca, vergine, siciliana nominata dopo la peste Prima Patrona accantonando allora le quattro «Santuzze» precedenti (sant’Oliva, santa Cristina, santa Ninfa e sant’Agata) ma soprattutto san Benedetto. Santo sì ma poverello...