la Repubblica, 1 agosto 2023
Cronaca della fine del fascismo (6)
Meglio raffreddare la temperatura, proponendo a Hitler un vertice a Tarvisio tra Ribbentrop e il nuovo ministro degli Esteri Guariglia. Sarà il primo contatto ufficiale tra la Germania nazista e l’Italia del dopo-Mussolini, tra vecchie alleanze, nuove diffidenze e un’ostentata freddezza degli uomini del Führer anche durante la colazione in treno con 31 coperti. «Voi vi preparate a tradirci», accusa Ribbentrop all’inizio del vertice, e alla fine, dopo che Guariglia ha negato per tutto il tempo, gli chiede di sigillare questo impegno con la parola d’onore. Ma il vero problema, per gli italiani, era nato prima di partire. In che abiti si doveva presentare la delegazione di Badoglio? Poiché volevano ribadire a Ribbentrop che «la guerra continua», meglio indossare un’uniforme: ma con quali insegne, nel passaggio da un regime all’altro? Guariglia sceglie giacca bianca su pantaloni blu. Ma il berretto di quella divisa non si può usare, perché il Fascio Littorio, che è uscito dalla vita pubblica italiana quando il Pnf è stato sciolto, è rimasto in bella vista proprio lì, al centro del cappello, in un’ultima testarda sopravvivenza. Che fare? D’Acquarone suggerisce di ricorrere al «berretto dei gentiluomini di corte», che si fregia solo dell’aquila, alata, dorata e coronata ma politicamente neutrale. Egidio Ortona segnala un altro rischio: Ribbentrop è abituato a sporgersi dal finestrino del treno molto prima della fermata, per un saluto romano lungo e teatrale. A quel punto il ministro Guariglia come risponderà? Lui alza le spalle: «In qualche modo mi arrangerò».
Ma la vera preoccupazione è come svincolare l’Italia dal conflitto. «La guerra continua», aveva detto Badoglio nel proclama. A molti antifascisti quelle parole sembravano inappropriate, come se il nuovo governo rinnovasse l’impegno del vecchio, nonostante il cambio di regime. Badoglio conosce benissimo le condizioni militari dell’Italia, con due terzi delle forze ormai perse in Russia, il disastro in Libia, l’aviazione decimata, la Marina da guerra colpita duramente, 36 divisioni sparse sui fronti aperti dal Duce tra Francia, Grecia, Albania, Croazia e Montenegro. Ma monitora anche le manovre dei tedeschi, che schierano in Italia 8 divisioni mentre a Innsbruck stanno ammassando rinforzi pronti a varcare il Brennero, in modo da concentrare 18 divisioni nel nostro Paese contro le 12 italiane, con 430 mila uomini. Il governo cerca di capire le intenzioni di Hitler, i tedeschi spiano gli italiani: cosa significa quell’improvviso assalto della folla al consolato di Germania a Torino? E perché non ci sono reazioni a difesa di Mussolini? L’ambasciatore a Roma Von Mackensen già lunedì 26 si presenta da Badoglio a chiedere spiegazioni. Il Maresciallo spedisce così il suo primo telegramma a Hitler: «Führer, la guerra per noi continua nello stesso spirito dell’alleanza. Desidero nuovamente confermarvelo e approfitto dell’occasione per manifestarvi i miei sentimenti cordiali».
Da una parte la tensione con i tedeschi, e con la loro pretesa che tutto continui come prima, dall’altra la pressione di inglesi e americani, con la richiesta che l’Italia si liberi dal giogo dell’Asse. Telegrammi, suppliche di cittadini, lettere di associazioni si ammucchiano sul tavolo di Badoglio, pretendendo subito una pace separata. I vecchi antifascisti, con Bonomi, Casati, Buozzi e Roveda, si presentano dal Maresciallo, chiedendogli di aprire subito una trattativa con gli Alleati, impazienti: non capiscono cosa aspetti il nuovo governo, non più fascista, a fare il passo decisivo contro Hitler. Due giorni dopo l’arresto di Mussolini, parlando alla Camera dei Comuni Churchill comunica l’ultima decisione: «portare la massima valanga di acciaio e di fuoco per tutta la lunghezza e la larghezza dell’Italia, lasciando per ora gli italiani a cuocersi nel loro brodo». L’indomani il generale Dwight Eisenhower, comandante in capo delle forze americane in Europa, parla da Radio Algeri: «Noi elogiamo il popolo italiano e la casa Savoia per essersi sbarazzati di Mussolini. Un solo ostacolo rimane sulla via della pace, ed è l’aggressore tedesco sul suolo italiano. Voi volete la pace: potete averla subito se cessate di dare assistenza alle forze militari tedesche».
Ma chi va dal Re, sorprendentemente, lo trova preoccupato, esitante, insicuro come sempre. La fine di Mussolini gli ha restituito le prerogative regie, ma non la fiducia nella democrazia, parola che non viene mai pronunciata. Scrive un promemoria per Badoglio, con l’ordine di conservare il carattere «militare e tecnico» del governo, di «cessare recisamente» l’estromissione di tutti gli ex fascisti da ogni attività pubblica, per evitare il rischio che gli esclusi siano attratti dai «partiti estremisti»: «Ove il sistema iniziato perdurasse si arriverebbe all’assurdo di giudicare implicitamente l’opera stessa del Re». Più che pensare alla liberazione del Paese dalle scorie della dittatura, Vittorio Emanuele è concentrato sui destini della Corona, esattamente come nel 1922: all’inizio e alla fine del fascismo per il Re sul dovere patriottico prevale l’investimento dinastico. Il 27 luglio quando riceve Marcello Soleri il Sovrano è ancora aggrappato all’idea della “gradualità”, senza demolire troppi istituti del fascismo: «Basta la soppressione del Tribunale Speciale, non serve altro». Inutilmente l’ex ministro liberale lo avverte: «Eviti la Vostra Maestà di diventare il bersaglio sia del fascismo a cui ha tolto il potere, che dell’antifascismo deluso dalla monarchia». Il giorno dopo va al Quirinale Grandi e incontra un Re cupo e dubbioso. Prova a scuoterlo: «Se il nostro esercito non attacca le forze di invasione tedesca d’intesa con gli Alleati, ci aspettano giorni tremendi». «Ma i tedeschi ci schiacceranno», obietta il Sovrano. «In tutti i casi – conclude Grandi – l’Italia non potrà evitare il Calvario che l’attende
Da riserva, Badoglio diventa il primo attore, anche perché vuole sembrare perfettamente a suo agio nel travaso dall’esperienza militare alla tecnica politica. Quando i rappresentanti dei partiti antifascisti gli propongono una pace separata, risponde che «è già difficile concludere una pace tra due contendenti, e qui siamo in tre». A Grandi che lo invita a combattere subito i nazisti, dice di no: «Terrò a bada i tedeschi e riuscirò a fare la pace con gli Alleati». A chi lo critica per aver annunciato che la guerra continua, risponde piccato: «Pura poesia, la realtà è che in quel momento non esisteva un’altra soluzione». Millanteria? Inesperienza? Il Duca d’Acquarone lo osserva dal Quirinale, mentre posa sul tavolo il cipollone d’argento con incisa la locomotiva che sbuffa, per far capire che non ha tempo da perdere: «Se le cose gli vanno bene, chi lo ferma più?». Ma il vero sismografo del governo è il nuovo Capo della polizia Senise, sensibile a ogni crepa nel suo ufficio al pianterreno del Viminale. Quando Grandi passa a salutarlo, indica il primo piano, dove opera Badoglio, e spiega: «La verità è che qui sopra sono tutti matti».
Il Führer però non si rassegna alla perdita di Mussolini. La rete che la Gestapo ha steso in Italia, con centrali riservate in indirizzi ignoti al governo Badoglio, sta lavorando per scoprire dov’è custodito l’ex dittatore. È per questo che la prigione del Duce cambia continuamente. L’angolo di mondo che lui scorge tra le persiane della finestra è il cortile della caserma: il 27 mattina un ordine improvviso lo svuota mandando tutti in camerata, con le finestre chiuse. Nessuno deve incrociare Mussolini che scende le scale tra i carabinieri. Si parte, non gli dicono la destinazione: ma lui è convinto che la macchina con le tendine abbassate su cui lo hanno fatto salire accanto all’ispettore Pòlito lo porterà alla Rocca delle Caminate. Presto si accorge che l’auto, invece di imboccare la Flaminia per puntare su Forlì, corre sull’Appia, verso sud. «Sono cambiati gli ordini» comunica Pòlito. L’arrivo in piena notte è a Gaeta, dove un ufficiale con lalampadina accesa guida il piccolo corteo al molo Ciano. Sul ponte della corvetta Persefone, Mussolini capisce: lo stanno portando a Ponza, l’isola che lui stesso ha trasformato in un luogo di confino per gli oppositori politici, dov’è stato inviato il primo segretario del Partito Comunista d’Italia, Amadeo Bordiga, dov’è finito ras Imerù, uno dei Principi etiopi. Ecco che la sua vita si rovescia, le misure liberticide studiate per gli avversari adesso si applicano a lui. Vede il profilo dell’isola che si avvicina, quella casa slavata di verde pronta per lui, nessun movimento apparente. Ma quando sta per scendere si accorge di un balenare di lenti attraversate dal sole. Ponza ha saputo che sta arrivando Mussolini, spuntando proprio qui dal mistero che lo avvolge da tre giorni, eccolo sulla barca che ha lasciato la corvetta con sei carabinieri: tutti da terra puntano binocoli e cannocchiali verso di loro, frugando con lo sguardo ravvicinato l’imbarcazione, finché inquadrano il Duce.
È un’apparizione, e una conferma. Anche per Pietro Nenni, uno dei leader del Psi che il fascismo ha confinato sull’isola dal 6 giugno, l’antico compagno di prigione del Mussolini socialista e ribelle nella cella nume ro 78 di San Giovanni in Monte, a Bologna, dopo lo sciopero generale del 1911. Stamattina è stato avvertito da Tito Zaniboni, il deputato del Psu di Matteotti condannato a trent’anni per aver progettato un attentato al Duce, con la carabina che nel novembre ’25 doveva spuntare da una finestra all’ultimo piano – stanza 90 – dell’hotel Dragoni in piazza Colonna, puntata verso il balcone di Palazzo Chigi nell’anniversario della Vittoria. Per un capovolgimento del destino, invece di trovare il Duce nel mirino di un fucile di precisione diciotto anni prima, Zaniboni lo vede adesso dentro un binocolo, prigioniero. Poi tocca a Nenni che subito non riconosce Mussolini, nell’ingrandimento delle lenti gli sembra stordito, invecchiato, tanto che i due socialisti chiedono una conferma al maresciallo Lambiase. È proprio lui. Nei giorni successivi torneranno a cercarlo con un cannocchiale, quando apre la finestra per il caldo, mentre si passa il fazzoletto sulla fronte, in maniche di camicia verso sera, come per rassicurarsi che sia davvero lì. Il cortocircuito delle due vite che tornano a incrociarsi trent’anni dopo spinge Nenni a ripensare a quell’amicizia nata in galera da una fede comune. «Oggi eccoci entrambi confinati nella stessa isola – scrive nei suoi appunti —, io per decisione sua, egli per decisione del Re e delle camarille di corte». Poi riflette sui trent’anni che li hanno divisi: «sono stati per lui anni di potenza, di orgoglio, di folli ambizioni e di sconfinati abusi di potere, e sono stati per me anni di lotta, di miseria, di dolore, da carcere a esilio, da una sconfitta a un’altra, ma senza che l’umiliazione o la vergogna abbiano mai piegato la mia fronte». È così vicino che vorrebbe parlargli: eppure è ormai definitivamente lontano, tanto che si può azzardare un bilancio. «È un vinto, è l’eroe dannunziano ruzzolato dal suo trono di cartapesta che morde la polvere. Noi, i suoi avversari di vent’anni, siamo in piedi per altre lotte, italiani senza aureola ma con la dignità della nostra vita e della parola mantenuta
Nenni non sa che il primo giorno di Mussolini a Ponza è la vigilia dei suoi 60 anni. Il Duce guarda la camera nuda dove è appena entrato, si siede sulla rete metallica del letto. Capisce che passerà lì il compleanno, in compagnia dell’ulcera che è tornata a farsi sentire. Non sa che fare, niente giornali, radio spenta, non ha libri. Chiede carta e matita, traduce in tedesco quel che ricorda a memoria delle
di Carducci. Fra qualche giorno sostituirà un carabiniere in una partita a carte coi colleghi, tra una settimana farà due volte un bagno in mare in un angolo riservato dell’isola, un mattino invierà a don Luigi Dies, il parroco, una busta con mille lire e la richiesta di una messa in suffragio del figlio Bruno, morto due anni prima il 7 agosto, per un incidente aereo: ma il permesso per partecipare alla funzione non arriverà. Attraverso il governo italiano arrivano invece a Ponza gli auguri di Hitler: una cassa con i 24 volumi delle opere complete di Nietzsche. Anche Göring scrive a Mussolini, una lettera d’auguri accompagnati da quella frase che sembra una promessa: «Desidero dirvi che il nostro pensiero vi segue costantemente». Il 29, giorno del compleanno, Radio Berlino celebra Mussolini come «figura unica nella storia, secolare, dal nome immortale». Politicamente, lui si sente confortato. Personalmente, ha il morale a terra. Chiede se può scrivere alla moglie. «Cara Rachele, il latore ti dirà quello che mi è accaduto. Tu sai quel che il mio stato di salute mi permette di mangiare, ma non mandarmi molto: solo qualche vestito e dei libri. Non posso dirti dove sono, ma posso assicurarti che sto bene. Resta calma e bacia i ragazzi. Benito».
Incredibilmente il Re è ancora convinto di poter arrivare a una pace separata dell’Italia con il consenso di Londra e Washington e la benevolenza di Berlino. Badoglio lo asseconda: «Noi dobbiamo lavorare fra gli anglo-americani e i tedeschi – spiega – destreggiandoci tra i due. Il nostro è un lavoro di ricamo». E invece l’ondeggiamento italiano spazientisce gli Alleati, mentre allarma sempre più gli uomini di Hitler, che diventano minacciosi. All’inizio di agosto il maggiore tedesco Otto Hoffmann rivela al telefono i piani del nuovo ambasciatore tedesco: «Quel matto di Rahn vuole passare alla storia come Nerone II, e sta facendo pressioni sul Führer perché gli conceda l’ordine di incendiare Roma, con la residenza reale e il Vaticano, per punirla del suo tradimento». La consegna di Badoglio è la massima vigilanza (casa sua è circondata da sacchetti di sabbia e mitragliatrici) e il silenzio assoluto, anche in Consiglio dei ministri. Emissari italiani senza esperienza e senza credenziali, per non compromettere il governo, viaggiano cercando confusamente di capire che cosa può smuovere Inghilterra e Stati Uniti dalla decisione già dichiarata di accettare dall’Italia soltanto una resa incondizionata. Un treno diplomatico parte il 12 agosto per Lisbona: il governo, come se non ci fosse premura, fa salire il generale di Brigata Giuseppe Castellano su quel convoglio, che lo sbarca il 18 nella capitale portoghese. Qui il 19 Castellano incontra finalmente gli uomini dell’Alto Comando Alleato del Mediterraneo, riceve per la prima volta le condizioni dell’armistizio e riparte soltanto il 23 agosto, sempre in treno, arrivando a Roma il 27. La missione esplorativa è durata esattamente due settimane: il governo italiano non ha fretta di prendere decisioni, col Paese ormai al collasso.
Scattano le misure militari in previsione dell’armistizio e nell’illusione che la Gestapo non venga a conoscenza dei movimenti in corso. Segretamente si preparano gli ordini per portare il Re nella tenuta di San Rossore in caso di pericolo e per proteggerlo in Sardegna in caso di minaccia: siamo già in emergenza. Ma sono gli americani a rompere gli indugi, con un messaggio del generale Eisenhower da Radio Algeri: «Italiani, vi abbiamo avvertiti. Otto giorni sono passati, ma la nostra offerta di pace è rimasta senza risposta. Voi siete stati traditi da Mussolini, e oggi Badoglio vi tradisce, prosegue nella guerra. Le nostre forze aeree porteranno la distruzione nelle vostre città e il vostro sangue sarà sparso invano. Noi non vogliamo fare la guerra al popolo italiano, ma voi non siete riusciti a imporre la pace al vostro governo. A voi la scelta».
Il rumore dei bombardieri che volano nel buio torna a portare la distruzione a Milano, Genova, Torino la nottedel 7 agosto. Le bombe incendiano l’altar maggiore del Duomo di Milano, crolla la cupola della Scala, la biblioteca ambrosiana è lesionata, la Galleria è sfregiata, palazzo Marino è in rovina. A Torino è colpito palazzo Madama, attaccato palazzo Carignano, preso a bersaglio il Valentino, sono bombardate le Molinette e il santuario della Consolata, con la sua collezione di grazie ricevute nei miracoli disegnati sugli ex voto. A Roma sono devastati i quartieri operai, la popolazione è mitragliata dalle incursioni a bassa quota. Panico, disperazione, la Regina non vuole il tricolore esposto nel giorno del suo onomastico, il 18 agosto. Il Papa esce nuovamente dal Vaticano, va nei quartieri distrutti: quando accarezza i capelli di un ragazzo, tutti vedono la manica candida della tunica macchiarsi di sangue. Domani, alla fine della messa, si alzerà in tutte le chiese del Paese la preghiera voluta da Pio XII alla Santissima Vergine, Signora d’Italia: «Tu che hai mostrato una predilezione particolare per l’Italia, dove hai voluto che fosse trasportata sulle ali degli angeli la tua casa di Nazareth, non permettere che un piede straniero venga a calpestare questa terra di santi e di eroi, sulla quale sono state versate tante lacrime». La preghiera continua in privato, nelle stanze del Papa. Dino Grandi è in udienza dal pontefice, seduto davanti al suo scrittoio quando le sirene annunciano nuovi bombardamenti. Allora Pio XII si inginocchia con le mani giunte chiedendo misericordia al Signore e Grandi si ritrova in ginocchio accanto a lui.
Stringendo nelle mani le falde del grembiule che ha riempito di ghiande da portare ai maiali, come se la vita continuasse normale, Rachele entra in casa mentre arriva a Villa Torlonia l’ispettore Pòlito, che le consegna la lettera di Mussolini. È il giorno del compleanno, il 29 luglio: Rachele infila in una cesta un pollo, due porzioni abbondanti di tagliatelle, pomodori e frutta dell’orto, più una bottiglia d’olio, una lettera per il marito e un libro, la
di Ricciotti. Pòlito ripassa pochi giorni dopo, chiede vestiti da montagna, maglioni da sci, lei aggiunge un cappello scuro di feltro, il “capelaz” romagnolo. Il generale ritorna la sera del 2 agosto alle 11, perché un ordine dispone che adesso la moglie del Duce debba lasciare Villa Torlonia,per trasferirsi alla Rocca delle Caminate. È un viaggio lunghissimo, dura più di dieci ore. Rachele è furiosa. Un colonnello dei carabinieri siede davanti con l’autista, lei è dietro con Pòlito che fuma un sigaro dopo l’altro, le dà del tu, nelle soste la chiude dentro l’auto, le porge un biglietto con l’indirizzo di casa, le mette una mano sopra il ginocchio e tenta un pesante approccio nel buio. Ma la vera prova aveva dovuto superarla l’altra mattina, quando Irma, la cameriera, sopraffatta dalle emozioni di quei giorni e dalle fotografie pubblicate dal
le aveva rivelato che l’ultima amante di Mussolini era una giovane donna di nome Claretta, e la relazione durava da sette anni. Rachele è frastornata, fa qualche domanda, si rende conto che tutti sapevano, Romano già a giugno aveva letto il nome di Claretta in una lettera anonima. Si siede ammutolita. Non sa dov’è il Duce, nessuno le dice se sta bene salvo la Principessa Mafalda di Savoia, che le ha mandato la sua manicure con un messaggio per rassicurarla: questa Claretta che spunta proprio adesso la ferisce, ma non cambia l’ordine dei problemi che lei deve affrontare. Non riesce a chiedere altro, si sente umiliata. Armandino, il custode della casa che è marito di Irma, va verso la moglie e senza nemmeno una parola la schiaffeggia.
Adesso Badoglio capisce che non si può più aspettare. Ordina a Castellano di raggiungere l’indomani, 31 agosto, la Sicilia per riprendere il dialogo con gli Alleati, e modificare le loro condizioni per la pace. Il generale deve spiegare ad americani e inglesi che l’Italia ha bisogno di tempo e di copertura militare per arrivare all’armistizio, perché altrimenti rischia l’annientamento davanti alla reazione di Hitler. Castellano, insomma, deve negoziare. Ma il problema è che non c’è uno spazio negoziale, le clausole dell’intesa non si toccano. Sei ore prima dello sbarco Eisenhower e Badoglio annunceranno l’armistizio con due dichiarazioni concordate. Castellano prova a discutere, chiede di conoscere almeno la data dello sbarco e il luogo: niente, l’inviato italiano è a Cassibile solo per accettare o respingere le condizioni prefissate. Prendere o lasciare, il giorno “x” sarà probabilmente tra il 10 e il 15 settembre, il luogo dello sbarco resta segreto: nient’altro. Il generale ritornaa Roma con l’ultimatum anglo- americano. Ripartirà il2 settembre pronto a concludere l’intesa, anche se all’ultimo minuto gli inglesi si accorgono che Castellano non ha un mandato scritto che lo autorizzi alla firma. A metà pomeriggio arriva la conferma da Roma, tutto è a posto. Alle 17.15 di quel 3 settembre, di fronte a Walter Bedell Smith e all’inviato della Corona inglese, Harold Macmillan, Castellano vestito in borghese firma l’armistizio sotto una tenda da campo, davanti a due bicchieri di whisky, in un punto dell’uliveto di cui oggi si sono perse le tracce: come di quel ramoscello d’ulivo che il generale spezzò subito dopo, per donarlo a un ufficiale americano.
Anche Mussolini sta attraversando due volte l’Italia, all’oscuro di tutto. Strane presenze, segnalazioni luminose si erano accese nella notte sulla collina di Ponza. Senza bussare, il maresciallo Antichi appare all’una nella stanza dove il Duce dorme, facendogli fretta: «Pericolo immediato, bisogna partire». Li aspetta il cacciatorpediniere Pantera, e quando scende in cabina con l’ammiraglio Maugeri, l’ex Capo del fascismo apprende dagli ufficiali che Badoglio ha sciolto il partito che lui aveva fondato nel 1919. Alle due del pomeriggio arrivano alla Maddalena e Mussolini è scortato fino a un’altura verde, dove sorge la Villa Webber. Nei venti giorni sull’isola il Duce cede allo scoramento. «Sono arrivato a due conclusioni – scrive nel diario —: il mio sistema è disfatto, la mia caduta è definitiva. La voce infallibile del sangue dice che la mia stella è tramontata per sempre». Fa amicizia col prete, don Capula. Una sera, all’ora di cena, un apparecchio tedesco passa su Villa Webber volando così basso da spaventare tutti. La prigionia è troppo esposta. E il 27, il capitano Faiola indica al Duce un idrovolante che attende nella rada: «Domattina si parte». Alle 4 di notte l’aereo decolla per il lago di Bracciano. Qui lo aspetta l’ambulanza che lo ha portato via dalla casa del Re. Ora corre verso L’Aquila, e si ferma alla base della funicolare del Gran Sasso, vicino a una villetta appartata. C’è la radio, la Gazzetta Ufficiale, arriva il Bollettino di Guerra. Dopo qualche giorno gli dicono che domani si sale con la funicolare fino ai 2112 metri dell’albergo Rifugio. Cercando di dormire stanotte ripassa in esame questo primo mese di prigionia, le cose che ha capito nella povertà di notizie, quelle che ha immaginato, i posti, le persone. Chi mancaall’appello nel buio di questa stanza di montagna? Edda, la figlia. Avrebbe voluto parlarle subito, la notte della sconfitta, dirle che suo marito Galeazzo aveva votato contro di lui, chiederle se lo sapeva, domandarle perché. Ormai alle tre di notte, dopo il Gran Consiglio, con Scorza che lo aspettava nell’anticamera vuota per accompagnarlo a casa, aveva provato a chiamarla a Livorno, nell’ultima telefonata di un sabato infinito. Voleva sentirla. Ma appena udì la sua voce dopo qualche squillo, fece soltanto in tempo a dire due parole: «Senti, Edda…», e uno schianto tra le sirene dell’allarme aereo fece saltare la linea, spezzando quella conversazione-confessione che non era riuscita nemmeno a incominciare. Adesso quelle parole restavano sospese anche nel buio del Gran Sasso, un’incompiuta. «Senti, Edda…».