il Giornale, 1 agosto 2023
Il turismo del terzo Reich
Si poteva fare del turismo nella nazione dove Hitler era al potere? È la domanda, provocatoria, va da sé, che si è posta Julia Boyd nel suo Viaggiare in Germania all’epoca del nazismo (Luiss editore, pagg. 418, 26 euro; traduzione di Antonella Salzano). La risposta, che l’autrice registra stupefatta, è che sì, c’erano i turisti durante il Terzo Reich, inglesi e americani soprattutto, e tali continuarono a essere in pratica sino alla vigilia della guerra: ancora mezzo milione nel 1937. Si dirà che era un turismo «politico» oppure un turismo «ideologico», fascista in entrambi i casi, o più sottilmente antinazista se ci si recava nella «tana del lupo» per vedere quanto e come stese affilando i denti e dare poi in casa propria l’allarme... Ma Julia Boyd non fa sconti e dice che no, la grande maggioranza della gente era gente normale, famiglie con bambini, coppie in luna di miele, ragazze e ragazzi al loro apprendistato di giramondo e di studenti, giovani Erasmus ante litteram che andavano lì per un programma di studi, un corso di lingue, uno scambio culturale...
Ogni storico che si rispetti sa che non si può fare la storia con il senno di poi, sapendo cioè come è andata a finire. Il rischio infatti non solo è di travisare il passato, ma di renderlo incomprensibile. Le testimonianze d’epoca hanno un valore proprio perché ce ne restituiscono il clima, le speranze e le illusioni, così come i timori, i fraintendimenti e le paure: giudicare a posteriori, per di più dall’alto di una moralità adamantina che sa sempre dove sta il bene e dove sta il male, disegna i contorni di un mondo perfetto, ma irreale, costretto ogni volta a stigmatizzare l’imperfezione di quello reale, il cui principale difetto sta proprio nel suo essere esistito.
Il libro Viaggiare in Germania all’epoca del nazismo aiuta a riportare in superficie verità lasciate sprofondare. La prima, la più banale, se si vuole, è che in Germania ci si poteva recare senza troppi problemi (complicato, caso mai era, ma per i tedeschi, uscirne). Nancy Mitford, la sorella più intellettuale di un clan femminile che si divideva fra supporter fasciste e supporter antifasciste, osservò alla vigilia della guerra: «Ho sempre detto che non c’è nessuna differenza tra bolscevichi e nazisti, se non il fatto che gli ultimi, essendo meglio organizzati, probabilmente sono più pericolosi». Lasciando da parte la fondatezza della comparazione, fatta propria con meno disinvoltura, ma più serietà scientifica, da molti studiosi del totalitarismo, almeno una differenza c’era, visto che la Mitford era andata e tornata dalla Germania senza problemi, mentre in Russia non aveva mai messo piede... Questo non perché Hitler fosse più ospitale e meno sospettoso di Stalin, ma perché la Germania, per il suo ruolo, la sua storia, la sua cultura, era parte integrante del Vecchio continente, mentre la Russia era qualcosa a sé: troppo grande, troppo impenetrabile, troppo asiatico. La musica, la filosofia, la storiografia e la letteratura europea parlavano in tedesco e, più in generale, la grande industria e la grande borghesia, per non parlare dell’aristocrazia tedesca, avevano ramificazioni e intrecci, sia economici, sia familiari, sia di stile di vita, di respiro europeo, facevano insomma parte, come orizzonte ideale dello stesso panorama. La rivoluzione bolscevica, oltre ad aver sanguinosamente tagliato i ponti con il proprio passato monarchico e imperiale, nonché culturale, le sue alleanze, le sue frequentazioni, aveva fatto del proprio credo ideologico una sfida a quella che era l’impalcatura delle società europee: la proprietà privata e le classi sociali, i partiti, l’economia di mercato, la religione, la pluralità della stampa come delle opinioni. Nel nazismo, per come sorse e si affermò, non c’era nulla di tutto questo: c’era l’idea di una grande Germania che voleva riprendere il ruolo che era stato il suo e che lo sciagurato, diplomaticamente parlando, trattato di Versailles aveva cercato di rendere impossibile.
Il periodo che in Germana seguì la fine della guerra e che culminò con la crisi mondiale di Wall Street nel 1929, come osserva la Boyd in un capitolo significativo, fu il decennio della «miscela in ebollizione», prendendo a prestito una definizione dello scrittore inglese Christopher Isherwood: un ribollire «di disoccupazione, malnutrizione, panico in borsa e altri potenti ingredienti». Chi, come il suo amico Stephen Spender, aveva approfittato della debolezza del marco e della promiscuità sessuale a essa strettamente legata, il corpo come strumento di scambio economico, per vivere senza troppi problemi economici e inibizioni morali, si sorprese a osservare: «A causa della sofferenza diffusa in questo Paese, là dove un tempo le orde della prostituzione potevano essere considerate merce, ora non riesco a ritenerle altro che carcasse: e non è piacevole immaginarmi nel ruolo di avvoltoio straniero». Ancora nella primavera del 1931, il giovane diplomatico britannico Rumbold, in una informativa per il Foreign Office, scrisse che in Germania «le persone non sanno come faranno a superare l’inverno. Hanno l’impressione di non avere niente da perdere e niente in cui sperare (...). È la mancanza di speranza che fa apparire la situazione così deprimente ai loro occhi e che rende difficile al cancelliere Bruning riuscire a controllarli». Hitler non nasce dal nulla...
Sull’antisemitismo, un intellettuale raffinato e progressista come John Maynard Keynes, aveva fatto, ancora negli anni Venti, osservazioni tanto sorprendentemente sgradevoli, quanto purtroppo in linea con quella che era una comune tendenza europea, in Francia, come in Inghilterra, per tacere dell’Europa orientale: «Sentivo che se fossi vissuto lì avrei potuto diventare antisemita, perché il povero prussiano è troppo lento e piantato sulle gambe rispetto a quell’altro tipo di ebrei, quelli che non sono folletti, ma servi del diavolo, con piccole corna, forconi e code pelose». Ai suoi occhi, era sgradevole vedere una civiltà «schiacciata dagli orrendi pollici del suo ebreo impuro che ha i soldi, il potere e il cervello».
Più in generale, scrive Julia Boyd, uno dei paradossi degli anni Trenta fu che «genitori liberali con ideali di sinistra inviassero regolarmente i loro figli nella Germania nazista, quando si aspettavano che aprissero le loro menti trascorrendo vacanze all’estero». C’è chi mandava la femmina a studiare arte a Stoccarda, chi il maschio a impratichirsi nel diritto... Fra i motivi non secondari, osserva la Boyd ironicamente, c’era anche che «il tasso di cambio era favorevole».
«Per tutti gli anni Trenta un flusso incessante di ragazze inglesi per bene arrivò a Monaco per completare la propria formazione. C’erano picnic, feste danzanti, gite culturali, incontri con aitanti ufficiali della Wermacht «tremendamente eleganti» e, come le ragazze scrivevano a casa, «le loro uniformi sono immacolate e la loro autostima inossidabile».
Per i giovani americani, l’esperienza fu altrettanto piacevole, soprattutto perché la Germania offriva una bellezza urbana plurisecolare a loro sconosciuta che si univa però al fascino dei paesaggi naturali a loro più familiare: i castelli medievali li colmavano di stupore, ma di boschi e foreste potevano vantare una certa pratica. Tuttavia, le Olimpiadi del 1936 fecero affiorare tensioni impreviste all’interno della squadra sportiva statunitense. Un velocista ebreo-americano, Marty Glickman, si trovò escluso dalla staffetta, ma, come disse ai giornalisti, quello «fu il primo e unico episodio d’antisemitismo che ho sperimentato. E quell’esperienza è dipesa dagli allenatori americani non dai tedeschi». Hitler rifiutò di stringere la mano a Jess Owens, ma il vincitore dell’oro nei quattrocento metri, Archie Williams, anch’egli di colore, intervistato su come lo avessero trattato «quegli sporchi nazisti» rispose che aveva visto «solo tanti tedeschi gentili. E non avevo dovuto viaggiare seduto n fondo all’autobus».
Interessante è anche come Julia Boyd inserisce nel suo Viaggiare in Germania all’epoca del nazismo, alcune visite ufficiali e/o politiche che vanno un po’ in controtendenza rispetto alla lettura comune dell’epoca fatta successivamente da molti storici. La cosiddetta politica di appeasement, non aveva tanto a che fare con una paura della potenza tedesca, il suo riarmo, la sua volontà di espansione. L’autrice cita il caso del settantenne David Loyd George, già premier britannico nella Grande guerra. Le sue sperticate lodi di Hitler («il George Washington della Germania», «la più grande fortuna che sia capitata al vostro Paese da Bismark e, oserei dire, da Federico il Grande») furono motivo di sarcasmo per i suoi avversari politici, ma testimoniano come intorno alla Germania e il suo Führer, al concetto di leadership e di democrazia, all’idea dell’«uomo forte» i pareri fossero molteplici e discordi.
Un diplomatico australiano che era stato in Germania durante gli anni di Weimar e della depressione e poi vi era tornato nel 1935, notò che «i tedeschi avevano riacquistato il rispetto di sé stessi». Si sorprese anche a osservare che erano molto più biondi del passato. L’anno prima, stando alle statistiche ufficiali, si erano vendute in Germania 10 milioni di confezioni di tinta per capelli...