Corriere della Sera, 31 luglio 2023
Mariotto Segni ricorda il padre Antonio
Mariotto Segni: «Mio padre voleva come inno la Canzone del Piave. Il piano Solo? Nessuna tentazione autoritaria»
Mariotto Segni, detto Mario, 83 anni, padre del tentativo del bipolarismo in Italia. E figlio di Antonio Segni, classe 1891, due volte presidente del Consiglio, ministro per 135 mesi, capo dello Stato dal 1962 al 1964, quando, il 7 agosto, fu colpito da una gravissima trombosi. «Sì, fu mio padre Antonio a chiamarmi Mariotto. Dopo tre maschi tutti volevano una femmina. Nacqui io, che delusione! (Segni sorride ). Avevano finito i nomi e mio padre scoprì che tal Mariotto Segni, messo dei Medici, fu tra i costruttori di un castello. Tra le sue mille scelte fu quella con meno seguito: in famiglia nessuno mi chiamò mai Mariotto».
Antonio Segni è del 1891, che padre è stato?
«Affettuosissimo, anche se ansioso e agitato. Fu preziosa mia madre, altrettanto affettuosa, ma serena e tranquilla. Una famiglia fortunata. Lei aveva dedicato tutta la sua vita extrafamiliare ai poveri. Mio padre quando ero piccolo era già ministro dell’Agricoltura e alto commissario per l’Alimentazione. Credevo dovesse portare da mangiare a tutti».
E invece che faceva?
«Certamente la riforma agraria. Espropriò circa un milione di ettari, duecento dei quali erano suoi. Scelta discutibile economicamente, ma depotenziò la campagna dei comunisti di occupazione delle terre. La miseria atroce del bracciantato del Sud diminuì».
Era un ragazzo all’alba del ‘900.
«Combatté sul Carso, nell’aviazione. Si ammalò di tifo. Pensò a lungo di proporre la canzone del Piave come inno nazionale. Non lo fece, non so perché, forse lo fermò la malattia».
Anche da capo dello Stato appena poteva scappava in Sardegna.
«Rispondo con una frase di Montanelli: “Il rapporto di Segni con la Sardegna è qualcosa di carnale, se è lecito usare questa espressione per un personaggio così diafano. Il venerdì sera non vi è crisi internazionale, non vi è problema politico, non vi è tempesta metereologica che gli impedisca di prendere il volo per Alghero».
Tutti di Sassari. Lui, Francesco Cossiga. E un bambino, allora: Enrico Berlinguer.
«Le famiglie si conoscevano da sempre. Con i Berlinguer avevamo anche in comune le vacanze a Stintino. Con Francesco Cossiga, e con i miei fratelli, invece, facevamo delle vacanze divertentissime sulle Dolomiti, a Misurina. Mio padre Antonio ha avuto in vita un ventaglio straordinario di cariche pubbliche, ma gli era rimasto il cruccio di non averne mai avuta una alla quale teneva tantissimo: fare il sindaco di Sassari».
Stimava ma non amava Aldo Moro.
«C’è un carteggio con De Gasperi che dimostra la forza e il successo dei governi centristi. Sarebbero durati ancora, senza la ferma volontà di Moro di governare con i socialisti. Comunque, è la verità: pur nel contrasto politico stimava Moro moltissimo».
Ma era più in sintonia con Guido Carli.
«Certo. L’allora governatore della Banca d’Italia andò da Antonio Giolitti, allora ministro del Bilancio, con due banconote della repubblica di Weimar da cinquecento miliardi di marchi. E gli disse che avremmo fatto quella fine, con i piani che preparavano. Mio padre pensava che quei progetti avrebbero distrutto l’impresa e il libero mercato, e che avevano problemi di costituzionalità».
Moro lo sostenne nella corsa al Quirinale.
«È vero, fu decisivo. Avere un conservatore al Quirinale era funzionale alla sua politica di apertura ai socialisti».
Per timore della sinistra osteggiò anche Montini.
«Si è scritto che affidò a Luigi Gedda una lettera rivolta ai cardinali in conclave, dopo la morte di Giovanni XXIII, per fermare l’ascesa al soglio di Paolo VI. Mai trovato riscontri, credo sia una bufala».
Si dice che pure Konrad Adenauer temesse Montini.
«Oggi si direbbe: puro gossip. È vero però che nelle relazioni internazionali quello con Adenauer fu il rapporto più stretto. Si scrivevano anche per commentare le rispettive politiche interne. Del resto, è di quegli anni la costruzione del muro di Berlino. Proprio in quel periodo mio padre andò a Washington per incontrare Dwight Eisenhower. Mi raccontò che gran parte del colloquio fu su Berlino. Secondo lui gli americani non capivano le drammatiche conseguenze che la divisione di Berlino avrebbe avuto sull’Europa».
Ci sono anche le parole di Cossiga.
«Disse in un’intervista che passò la notte del 18 aprile del 1948, quella delle elezioni che contrapponevano la Dc e il Fronte popolare, armato di tutto punto, per paura di un golpe comunista. E disse che i mitra glieli aveva dati mio padre. È difficile per i giovani di oggi capire il clima di tensione di quegli anni. La paura di un colpo di mano comunista c’era. Ma quelle parole di Cossiga, su un volo di ritorno da un viaggio presidenziale, incalzato dai giornalisti, tra storie e storielle, furono probabilmente chiacchiere un po’ fantasiose».
Un passo indietro, la dittatura fascista.
«Mio padre non amava parlare degli anni del fascismo. Non subì sanzioni, ma fu completamente emarginato. Ma non si può dimenticare che nel 1924 fu candidato nel Partito popolare di Luigi Sturzo, e quindi una scelta politica la aveva già fatta».
Incontrò più volte Charles De Gaulle.
«Diceva che somigliasse più a un vescovo che a un generale, lo ammirava, anche se erano divisi sull’Europa. De Gaulle scrisse nelle sue memorie che fu mio padre, insieme al ministro belga Spaak, a sconfiggere la linea francese, che non voleva la Gran Bretagna nel Mec».
E il piano Solo?
«Era un piano antisommossa, preventivo, contro un’ipotetica azione militare. “Solo” perché prevedeva che fossero soltanto i carabinieri a intervenire. Ma anche la polizia aveva un progetto simile, il piano Vicari. Non successe mai nulla. Pietro Nenni smentì per iscritto che ci fossero tentazioni autoritarie da parte di mio padre. Azioni politiche molto forti sì, ma niente di altro. Ho scritto un libro per contrastare lo scoop dell’Espresso del 1967, sul presunto tentativo di golpe del 1964. Lo considero una balla colossale».
Il 7 agosto 1964 ci fu il malore di suo padre, dopo un colloquio con Aldo Moro e Giuseppe Saragat.
«Fu devastante. Il suo medico, Giunchi, era nelle Marche. Un giovane dottore, emozionato e bravo, lo assistette fino al suo ritorno. Mio padre rimase paralizzato per metà del corpo e privo della parola, pur restando lucido. Escludo che la crisi fosse conseguenza di quel colloquio. Saragat venne a trovarci la mattina dopo commosso e emozionato. Non è un mistero che i suoi rapporti con mio padre fossero spesso tesi. Ci disse che quel giorno lui, di carattere sanguigno, era stato più moderato del solito perché aveva avuto l’impressione che il presidente non stesse bene. Aldo Moro, che era più freddo, fu affettuosissimo. Venne a trovarlo al Quirinale tutti i giorni».
Come reagì agli articoli dell’«Espresso»?
«Era malato da tre anni. Gli leggevamo i giornali tutte le mattine, capiva tutto. Per lui fu un trauma».
Lei si appassionò presto alla politica, cosa le disse?
«Mi diede un consiglio che ho sempre seguito: “Fai pure, ma solo dopo esserti costruito una posizione personale. Devi essere sempre in grado di andartene in punta di piedi».
Non amava Picasso.
«Tra verità e leggenda. A Parigi, davanti a un quadro di Picasso, bersagliato dai flash dei fotografi, si coprì gli occhi con le mani. I giornali francesi scrissero che il presidente si proteggeva dall’orrore che gli “sgorbi” di Picasso gli procuravano. Gli valse grande popolarità in Italia, tra i tanti che non apprezzavano il cubismo. (Segni sorride). Posso solo dire che non ho dubbi che amasse più Leonardo Da Vinci, piuttosto che Picasso».