La Stampa, 31 luglio 2023
Uomini e lupi
Sono al mare, nella parte di mare che mi spetta nelle ferree clausole del contratto matrimoniale, due settimane nel mare della mia sposa, in quell’esotico lago balcanico, il miracolo di socialismo balneare a cui danno il nome benedetto dalla fortuna di Riviera Romagnola, e due settimane nel mio di mare, nell’arcigna falesia dell’estrema Liguria di Levante, riviera luterana dove tutto è interiore, e salire fino a casa e scendere fino al mare è umanamente possibile solo in virtù di grazia. Sono dunque nel mio mare ma non potrei dire in vacanza, non tira aria di vacanza a casa nostra. Ce ne siamo venuti via lasciandoci dietro due alluvioni, e dopo le alluvioni due tornado, sì, tornado non trombe d’aria, pur se era inimmaginabile anche una tromba d’aria in quella nostra collina. Abbiamo lasciato a casa degli ospiti una famiglia che ancora casa sua non c’è l’ha, abbiamo lasciato il fango nel campo dove la ruspa non può lavorare perché ancora i cingoli affondando, abbiamo lasciato la strada che porta a casa malmessa perché è stata sgombrata alla bell’e meglio degli alberi che i tornado hanno sradicato, abbiamo lasciato una vigna smangiata dalla grandine, un orto senza più verdure, un giardino senza più frutti. Questa è l’aria che tira a casa, e allora non è vacanza, ma piuttosto fuga dalla nuda e cruda realtà delle cose, lo sfollamento dal teatro di guerra di un privilegiato.
E qui al mare tira aria di scirocco che gira a libeccio e aria di libeccio che gira a scirocco, senza che il santo refolo di maestrale meridiano riesca a farsi strada e a portare sollievo dalla calura e acque nuotanili, o almeno sguazzabili, a tutte le età; senza che il santissimo refolo notturno da nord, un tempo preciso come un orologio e ora finito chissà dove, spinga al largo le sozzure plastiche e organiche, ma ce le lascia lì sulla battigia. E del resto meglio così, che al largo farebbero danni immensi a fauna e flora, mentre è roba nostra e è giusto che ce la godiamo noi. E questo è effetto secondario e non dei più drammatici della crisi climatica, anche se mi pesa perché mi farebbe bene nuotare, nuotare mi obnubila la memoria, mi riempie di infinito mare, vuoto di pensieri e pieno di endorfine.
In questo borgo marino grave di austera immobilità, dove i più vecchi tra i paesani si ricordano ancora di me bambino, quest’anno abbiamo trovato un’interessante novità. Ogni cosa valicabile, giardini, orti, chiudende, case, cortili, è stata recintata da fitte e robuste reti elettrosaldate, e le reti si sono aggiunte ai muretti a secco, alle cancellate, alle palizzate, così che il paese ha assunto l’aspetto di un fortilizio ben protetto. Il nemico alle porte. Un nemico strisciante, parrebbe, quantomeno di bassa statura, perché le reti si innalzano, ben piantate nella terra, per non più di un metro. I cinghiali. Sono calati a centinaia, interi gruppi familiari organizzati in clan, in tribù, dalle loro tane lassù nei boschi inselvatichiti e hanno deciso di darsi alla bella vita, si son fatti commensali. Gradiscono nutrirsi del cibo che nutre noi, al momento si fanno bastare gli avanzi, hanno molto apprezzato la diligente raccolta differenziata e banchettano con l’organico ricco degli sperperi delle nostre cene; esseri di raro intuito, ora sanno risalire alla fonte, alle nostre case, e ci è stato caldamente raccomandato di chiedere ben bene le porte, sanno riconoscere la cucina dal tinello. Noi ancora non lo sappiamo, ma i cinghiali ormai hanno fatto il gran passo, da commensali si stanno facendo domestici, in confidenza con noi e con il nostro modo di vivere, al tramonto li incontriamo per strada, al mattino fanno il loro ingresso in spiaggia, nel meriggio sostano volentieri nei cortili. Confidenza con loro noi non l’abbiamo ancora presa, ci inquietano e ci mettono paura, così abbiamo smesso la bella e sana abitudine della passeggiata mattutina e serale in collina all’ora delle abbeverate, non ci piace incontrarli. Quanto tempo è passato da quando erano loro ad aver paura di noi, quando il solo nostro odore li inquietava e allarmava? Pochi anni. In paese discutono dei rimedi, anche il più drastico risulta inefficace, andare a caccia su per la montagna se ne fanno fuori troppo pochi, e è mai possibile mettersi a sparare per le strade, nei giardini, nel parco, sotto casa? Non ci resta che farcene una ragione, adattarci alla loro presenza, imparare a stare un poco più attenti, usare maggiori cautele, lasciare loro il passo in caso di incontro. Gestire la paura, per non pochi il terrore, consentire a farci addomesticare è l’unica ragionevole soluzione, noi addomesticati dai cinghiali. Non vi pare singolare, forse anche un po’ comico, come la specie dominante, la specie che è giunta alla giustificata convinzione di poter annientare ogni sorta di vivente che ritiene ai suoi interessi sottoposta, sia arrivata alle trincee, alla ritirata strategica e alla necessità di un’intesa armistiziale a causa di un suide?
E non è solo una storia di cinghiali. A casa abbiamo lasciato i lupi che sono scesi nei nostri orti, che si fanno vedere in pieno giorno girellare sfacciatamente attorno ai nostri ovili, ai nostri pollai, a un passo dalle nostre case. Per non parlare degli orsi, figuriamoci. Mi dicono che per tutto il Trentino, lungo gli itinerari delle più suggestive passeggiate, sono appesi cartelli con le istruzioni in caso di incontro con l’orso. Sì, oggi in montagna ci vuole un po’ di cautela in più, più attenzione, gli orsi ci fanno paura, gli orsi ci uccidono, ci vogliono male. E pensare che eravamo noi a uccidere gli orsi, lo abbiamo fatto con alacre sollecitudine e pensavamo di essercene liberati, per sempre. Ma no, non ci siamo liberati neppure delle zanzare, anzi; l’agronomo vicino di casa ci dice che da noi ora sono presenti sei diversi modelli di zanzara, compresa una coreana, con stili di vita diversi e diverse punturine che causano diversi pruriti e infezioni. Così ora sappiamo perché se vogliamo concederci alla gioia dell’orto e del giardino, sia mattina, mezzogiorno, sera o notte, dobbiamo prima immergerci in un bagno di Autan, e non è dato che sia una barriera inespugnabile.
Oh, sì, ci sarebbe sempre l’opzione della soluzione finale, abbiamo i mezzi tecnici e lo spirito adatti allo sterminio, ma pensavamo di averli già sterminati ieri con il DDT, ieri l’altro con le taglie su orsi e lupi, ma eccoli che sono ancora lì, e più vicini, e più numerosi, c’è qualcosa che alla fine non funziona nella politica dello sterminio, tende a sfuggire al controllo, a ritorcersi contro il controllore. E torniamo intanto a ospitare paure che avevamo dimenticato, persino eliminato dal nostro mandato genetico. E onestamente ritengo che la paura sia l’ultima possibilità per ricavare dallo sbandamento della nostra sovranità di specie quel po’ di saggezza che forse, ma solo forse, potrebbe riconsegnarci una giusta misura dei nostri rapporti con i viventi.
In una trasmissione radiofonica con i microfoni aperti al pubblico, ai tempi dell’ultimo attacco ursino un signore, una persona perbene, lo si capiva persino dal tono della sua voce, pacata, lamentava come a causa del plantigrado si trovava di fatto negato «il diritto di andare per i miei boschi». È questo il grande fraintendimento su cui si regge la nostra relazione con l’universo vivente, la perversione del nostro dominio. Cosa vuol dire «i miei boschi»? Chi lo ha mai detto che sono i miei? Abbiamo forse indetto un’assemblea generale degli abitatori che abbia deliberato in merito? Da dove nasce il “diritto” di farli miei? Solo dalla nostra dominanza, da una questione di forza, pura e semplice e strafottente volontà di appropriazione a maggior gloria e prosperità della nostra specie. E ora che ci penso non è neppure corretto parlare di specie, ma più appropriatamente di sistema. Cos’è la “natura” per il sistema a cui ci conformiamo da un paio di secoli, se non tutto ciò che è disponibile in forma gratuita allo sfruttamento? Parliamo di sfruttamento delle risorse naturali come se fosse ovvietà, e ovvio non contemplare intralci se non come fastidi eliminabili al minor costo possibile.
Gli orsi, i cinghiali, le zecche, ce ne sono di nuove è molto fastidiose, le zecche ticinesi, i lupi, la “natura” che non è più disponibile a cedersi gratuitamente, sono sparute avanguardie, modesti drappelli di esploratori, se ci soffermiamo a osservarli con un po’ di attenzione vediamo che sono vessilliferi, portatori di un dispaccio semplice e esemplarmente conciso: NO. Iddio volesse che fosse uno dei no che fanno crescere.
E intanto il mare è tornato a libeccio, mi caccio in acqua e me ne torno a riva con due brancate di plastica, forse viene dall’Africa, forse dalla Corsica, forse dall’Elba, ha fatto un lungo viaggio ma ancora porta leggibile il suo messaggio, NO. —