La Stampa, 29 luglio 2023
Com’è cambiato Erdogan
Da oggi Recep Tayyip Erdogan si sente molto più “indispensabile” e molto meno “dittatore”. Sono passati poco più di due anni da quell’aprile del 2021, quando l’allora premier Mario Draghi definì il leader turco un autocrate, ma con il quale bisognava fare i conti perché tutto sommato ne avevamo bisogno. Una battuta poco diplomatica e intrisa di realpolitik, e almeno così la presero gli stessi turchi, senza troppi drammi. La crisi si chiuse subito. Oggi come allora, anzi di più, l’Italia ha bisogno della Turchia, e la Turchia ha bisogno dell’Italia, e questo vale per tutta l’Europa. In mezzo si è aperta la terrificante guerra in Ucraina, una ferita che sanguina e amplifica i problemi di sicurezza ed economici. A Istanbul l’hanno pagata cara, con un’inflazione endemica che è esplosa fino a sfiorare le tre cifre ed è quasi costata allo stesso Erdogan la rielezione. Quella vittoria sul filo, il 28 maggio, nonostante un controllo quasi assoluto dei media, l’ha costretto a una riflessione. Sul fronte interno ha cambiato rotta, e governatore della Banca centrale, con la nomina per la prima volta nella storia di una donna. Che ha subito introdotto una politica monetaria restrittiva per domare la corsa dei prezzi e rimettere in carreggiata i conti dello Stato e delle famiglie. Sul fronte esterno ha fatto una nuova giravolta, ha aperto all’ingresso della Svezia nella Nato, anche se con calma, in autunno, ed è tornato a chiedere l’ammissione della Turchia nell’Unione europea, dove è in lista d’attesa dal 1987, una beffa, dato che nel frattempo tutti i Paesi dell’Est sono entrati senza problemi.
Ma tant’è, sì è passati dal “il futuro è in Asia” al ritorno di fiamma per il Vecchio Continente. Il corteggiamento comporta un uso massiccio di soft power, e qui si inserisce lo sport, e in particolare il calcio. Come in tutti i Paesi del mondo è stato introdotto dagli inglesi a fine Ottocento, in un periodo di grandi riforme all’interno dell’Impero ottomano, le Tanzimat, in un impeto di modernizzazione. La prima squadra venne fondata a Salonicco, allora sotto il dominio del Sultano, nel 1875, la più famosa, il Galatasaray, nel 1905 in un liceo che porta il nome del vecchio quartiere genovese a Istanbul, da studenti che guardavano all’Italia e alla Francia. La sede, all’imbocco della via Istiklal, è a poche centinaia di metri dal Bosforo, simbolo perfetto del ponte fra Europa e Asia che vorrebbe essere la Turchia. Nel secolo abbondante che è passato Turchia e Italia si sono scontrate armi in pugno in Libia e poi nella Prima guerra mondiale. E se vogliamo di nuovo in Libia dal 2014 in poi, quando la Tripolitania è passata sotto un governo ispirato dai Fratelli musulmani che ad Ankara, vedono il loro grande protettore, e Roma si è vista scivolare di mano una delle sue ultime zone di influenza.
Ma l’Italia ha bisogno della Turchia, e viceversa. In ballo ci sono il controllo dei flussi migratori, un interscambio importante che sfiora i 20 miliardi di dollari all’anno, investimenti nel tessile e nell’automotive. Erdogan osserva il Bosforo di colpo svuotato dalle navi commerciali per via del ritiro della Russia dall’accordo del grano e la guerra che si allarga al Mar Nero. Allunga lo sguardo più a Nord, dove trincee lunghe mille chilometri dividono l’Europa dal blocco euroasiatico. Vede un dramma e un’opportunità. Quello che doveva diventare la Russia, il grande ponte per unire il mezzo miliardo di europei ai cinque miliardi di asiatici in crescita impetuosa, potrebbe diventarlo la sua Turchia. E lo sport, da qui al 2032, sarà il suo biglietto da visita. Lo sport unisce. A volte divide, come si è visto due giorni fa nella scherma, o nell’ex Iugoslavia dove gli ultras fecero da detonatore alla guerra civile. Questa volta deve unire, e italiani e turchi non possono non essere d’accordo. —