La Stampa, 29 luglio 2023
Nelle celle italiane
Sovraffollamento, carenza di personale, discriminazione sociale, esplosione delle tossicodipendenze. La situazione delle carceri italiane è allarmante. Anche quella degli istituti penitenziari gestiti con impegno e competenza, come il carcere di Bergamo, la città di cui sono sindaco. Descriverne il funzionamento può dare la misura della gravità dei problemi, e forse lo spunto per un’azione di cambiamento.
I detenuti nella Casa circondariale di via Gleno sono oggi 521, rispetto ad una dotazione di 319 posti. Il sovraffollamento (del 163%, tra i più alti in Italia) comporta che nelle celle in cui sono previsti due detenuti ve ne siano tre, ma anche quattro, sei o sette. La legge dice che sotto i 3 metri quadri a testa, e qui spesso accade, i detenuti hanno diritto a chiedere la liberazione anticipata. In compenso vi è un forte deficit di personale: gli agenti di polizia penitenziaria in servizio sono 185, su un organico previsto di 243). Anziché turni di sei ore, gli agenti arrivano a farne di nove-dieci. Fino a 41 ore mensili sono straordinari, oltre sono ore da recuperare. Siamo arrivati a 27mila ora da recuperare, pari a 4.500 giornate di lavoro.
Sul totale dei detenuti, circa la metà è costituita da italiani; il 7,5% da stranieri comunitari; il 10% da stranieri extra Ue con permesso di soggiorno; e il 35% da stranieri extra Ue senza permesso di soggiorno. Considerando che questi ultimi sono stimati nel numero di circa 500mila in Italia, meno dell’1% della popolazione residente, significa che la loro propensione a finire in carcere – almeno stando ai numeri di Bergamo – è circa venti volte superiore a quella degli stranieri regolari, che a loro volta vi entrano in proporzione circa doppia rispetto alla loro presenza nel nostro Paese.
Ammesso che la detenzione sia un’attendibile misura della propensione a violare la legge, – lo è solo parzialmente – è la dimostrazione che il problema sicurezza non riguarda gli stranieri, ma principalmente – clamorosamente – gli stranieri irregolari, come conseguenza diretta del fallimento delle politiche migratorie del nostro Paese. Lo stesso sovraffollamento delle carceri non è che l’altra faccia della disastrosa gestione dell’immigrazione da parte dello stato italiano. Centinaia di migliaia di persone permangono in Italia dopo che la loro richiesta di asilo è stata respinta, o perdono i requisiti dopo aver perso il lavoro. Non vengono rimpatriati se non in misura minima (nel 2022 i rimpatri sono stati meno di 4mila) ma non possono lavorare regolarmente perché privi di documenti, oltre che di domicilio; e devono sopravvivere.
I numeri del carcere di Bergamo dicono con quanta facilità siano portati a farlo violando la legge e quanto sia per loro difficile accedere alle misure alternative alla detenzione (che in Italia coinvolgono quasi il 60% delle persone coinvolte nell’area del penale); queste sono infatti concesse dal magistrato di sorveglianza – e con la riforma Cartabia anche dall’autorità giudiziaria procedente – nelle forme della semilibertà, o della detenzione domiciliare, o dell’affidamento ai servizi sociali. Per chi non ha domicilio, per chi non ha soldi per pagarsi un avvocato e non ha relazioni sociali all’esterno, è quasi impossibile accedervi. In carcere finiscono dunque – per rimanervi – soprattutto stranieri irregolari, o persone senza soldi.
Trentasei detenuti (sui 521 totali) godono del regime di semilibertà (la metà ex art. 35): escono di giorno per lavorare e rientrano la sera, grazie ai posti di lavoro esterni reperiti e gestiti perlopiù dall’associazione Carcere e Territorio; altri 40 posti di lavoro coinvolgono condannati che hanno accesso alle misure alternative. Per chi lavora all’esterno – in cooperative o in imprese del territorio, alcuni anche per i Comuni – la forma di inquadramento principale è il tirocinio extracurricolare, retribuito circa 500 euro al mese. Nel 2022, su 80 detenuti coinvolti, 22 sono stati poi assunti a tempo indeterminato. All’interno del carcere i “posti di lavoro” sono invece un centinaio. Circa la metà riguarda “lavori domestici": pulizie, cucina, distribuzione dei pasti, lavanderia, eccetera. Sono poco qualificati, e tuttavia sono piuttosto ambiti, perché consentono di guadagnare qualcosa; sono affidati secondo un criterio di rotazione. Altri 50 sono relativi a lavorazioni gestite da soggetti esterni – cooperative o imprese – e comprendono attività di panetteria, sartoria, assemblaggio di pezzi meccanici, saldatura, cura dell’orto.
L’avviamento al lavoro è forse il profilo forse più qualificante del carcere di Bergamo, seppure piuttosto limitato nei numeri. Perché è la chiave per abbattere drasticamente il rischio di recidiva.
I dati CNEL dicono che in Italia, su 18.654 detenuti che hanno avuto la possibilità di un inserimento professionale, la percentuale di coloro che tornano a commettere un reato è del 2% – contro una media del 68,7%. La legge individua il lavoro come elemento del trattamento rieducativo; purtroppo, come si è visto, solo una parte minoritaria della popolazione carceraria ha accesso a questa possibilità.
Un profilo di fortissima criticità è rappresentato dalle tossicodipendenze in carcere. Nella Casa circondariale di Bergamo questo problema coinvolge oltre la metà dei detenuti: circa 300 su 521, molti dei quali giovanissimi. Relativamente pochi sono gli eroinomani, molti di più i dipendenti da cocaina. Tutti, praticamente, ricevono quotidianamente i farmaci prescritti loro dal personale medico per combattere disturbi quali ansia, insonnia o depressione; e molti ne abusano. Mentre gli eroinomani ricevono il metadone con regolarità, in dosi appropriate, gli altri consumano farmaci come il Lirica, un antiepilettico e antidolorifico, che spesso viene stoccato, elaborato e consumato in alti dosaggi, così da ricavarne un effetto in qualche modo simile a quello della cocaina.
Numerosi detenuti si fanno prescrivere questi farmaci e poi li vendono per potersi comprare sigarette o altri beni; col risultato che, in astinenza, diventano aggressivi – anche nei confronti del personale sanitario – e richiedono di essere calmati con altri farmaci, tra i quali le benzodiazepine, da cui pure tendono a diventare dipendenti.
Preoccupa soprattutto la crescente diffusione dell’uso del Lirica, ma è difficile immaginare di negarne la somministrazione. A Cremona si hanno provato e i detenuti si sono rivoltati, danneggiando diverse strutture del carcere. Servirebbe un controllo sanitario molto maggiore, ma con il poco personale disponibile – mancano medici e infermieri, i bandi vanno deserti e il servizio è affidato a cooperative – è pressoché impossibile realizzarlo.
Molti sono anche i reclusi con problemi psichiatrici. Alcuni si sono visti prosciogliere “per vizio totale di mente” ma, essendo socialmente pericolosi, dovrebbero essere ospitati in una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, una struttura sanitaria dedicata appunto agli autori di reato affetti da disturbi mentali. I posti nelle Rems sono però pochi. Si formano così delle liste d’attesa. Nel frattempo queste persone rimangono in carcere, senza cura – e ci sono stati adolescenti che hanno cercato di impiccarsi -, sempre che il magistrato di sorveglianza non decida di farli comunque uscire, con i rischi del caso.
Non ci sono stati casi di suicidio, nel carcere di Bergamo, negli ultimi anni, e questo nonostante il 2022 sia stato un anno tristemente record per il numero dei detenuti che in Italia si sono tolti la vita (85) e numerosi siano stati anche quest’anno. Anche in via Gleno ci sono però stati diversi “decessi accidentali”, dovuti a overdose di farmaci o all’inalazione di gas (3 nel 2022).
E questo è (quasi) tutto. Da un carcere che non è certo tra i peggiori del nostro Paese. —