La Stampa, 30 luglio 2023
Mattia Coffetti, il primo italiano ad autoimpiantarsi una calamita e microchip aprire porte, serrande, loggarsi al pc, pagare al supermercato con la mano
La battuta che si sente ripetere più spesso è: «Ma ce l’hai sottopelle come i cani?». Lui non si scompone, anzi. Mattia Coffetti, 35 anni da Rodengo Saiano, provincia di Brescia, analista nel campo della cybersicurezza, sorride: «Del resto – ammette – sono fatti dello stesso materiale. Sono prodotti medicali e, anche se non ci sono norme che ne regolano l’utilizzo sull’uomo, ci sono alcune aziende che li producono».
Stiamo parlando dei suoi microchip, cinque per l’esattezza, che Mattia si è auto-impiantato sul dorso delle mani e li usa per pagare al supermercato oppure loggarsi al computer: ne ha due sulla mano destra, uno tra indice e pollice che utilizza come password per sbloccare siti o login e aprire porte o serrande e un altro sul dorso con i dati bancari, quelli medici e della carta d’identità; sulla mano sinistra ne ha impiantati invece tre: un led che se avvicinato a una sorgente elettrica si illumina; un microchip che utilizza per pagare la spesa al supermercato e infine un magnete che attrae i metalli, per esempio, le viti.
«Con questo microchip – afferma Mattia – ho anche smentito i no vax che parlano del magnetismo che si verrebbe a creare nella zona dove veniva iniettato il vaccino. Ho visto con i miei occhi persone provare ad attrarre oggetti per dimostrare questa tesi e ho testato le loro reazioni usando la calamita che ho impiantato nella mia mano».
Mattia, da dove nasce questa sua passione per i microchip?
«Ho sempre avuto la passione per l’informatica. Ho avuto il mio primo computer a otto anni e trascorrevo le giornate leggendo le guide di Ms-dos, i sistemi operativi di Windows. Mi è sempre piaciuto uscire dagli schemi anche nello studiare le cose, tanto che a scuola ho avuto un sacco di problemi. Mi facevo travolgere da quello che mi appassionava cercando di andare oltre la superficie, smontando le cose, guardando come funzionavano».
Un po’ come i cosiddetti «smanettoni»?
«È un termine che non mi piace, però ho cominciato anche io così. Poi ho iniziato ad interessarmi alla cultura dell’hacking, ma non tanto per riuscire a violare i computer o sistemi operativi, ma piuttosto facendo mio il manifesto hacker, cioè non fermarsi davanti alle apparenze, studiare il più possibile, smontare le cose e andare a fondo di quello che ti piace».
Da qui l’incontro con il Transumanesimo?
«Sì. Da qui l’idea, cioè che l’informatica possa essere di aiuto alle persone. Alcuni lo conoscono come biohacking, che è però roba più da smanettoni appunto, la modifica del corpo per modificare dei parametri. Io con i miei microchip voglio piuttosto dimostrare che è possibile e l’integrazione tra uomo e tecnologia può aiutare le persone. Certo la ricerca deve continuare. Mio nonno ha avuto l’Alzheimer e mi piacerebbe che riuscendo a mappare il nostro cervello, certe malattie si possano curare».
I microchip dove li compra?
«Approfondendo su internet il transumanesimo ho scoperto questo mondo e individuato due aziende, una americana e una tedesca, che rivendono questi microchip. Il primo l’ho comprato nel 2019, il più semplice, un chip Nfc-rfid che serve per aprire porte o serrande e caricare dati. L’ultimo che ho impiantato è collegato a un’applicazione del telefono e lo utilizzo per pagare al supermercato».
Chi glieli ha impiantati?
«Non dovrei dirlo per evitare emulazioni. Si può fare da soli. Ci sono, comunque, dei centri convenzionati con i produttori di chip che lo fanno. Sono dei piercer, perché alla fine è come impiantarsi un piercing».
I suoi genitori come l’hanno presa?
«All’inizio male. Non li accettavano come non accettavano i tatuaggi. Poi hanno capito, visto la passione per l’informatica che ho da sempre. Soprattutto quando gli ho spiegato che sono come degli esperimenti su cose semplici che possono aprire a un mondo: la mappatura del cervello tramite chip per curare malattie neurodegenerative».