Corriere della Sera, 30 luglio 2023
Seneca al CCremlino
Le nazioni liberal-democratiche sbagliano eppure anche si correggono, perché nel confronto tra governo, opposizione e libera stampa emergono le più scomode verità. Al contrario gl’imperi e i loro dittatori fanno errori anche marchiani e permangono in essi, perché verità di comodo vengono imposte con la forza dai vertici di quelle piramidi sconfinate. Ciò ha inteso l’Occidente – dopo duemila anni di imperi tutti caduti —, che ormai conosce solo nazioni più o meno egemoniche, unite o alleate tra loro. Se risaliamo nel nostro passato più lontano – fuoriuscendo dall’attualità che imprigiona per natura solamente gli animali – scopriamo riflessioni su questa questione che è opportuno ricordare.
Ripropongo pertanto un trattato Sui benefici (libri VI-VII) di Seneca, stoico maestro e consigliere di Nerone, scritto non molto prima del 62, anno nel quale – persa ogni speranza – il filosofo si allontanò dal principe, così preparando la sua fine (ma nel libro VII si riscontrano aggiunte quanto mai sorprendenti).
Rivolgendosi a Liberale, cavaliere di Lione suo amico, Seneca scrive (testo a cura di Martino Menghi, Laterza, 2019, da me adattato al contesto): «Ora ti mostro di quale povertà soffrano coloro che occupano le posizioni più alte. A chi possiede tutto viene a mancare una persona che dica loro, frastornati da tanti mentitori, la verità. Così un uomo all’apice della società, ignorando la sua forza reale, soccombe all’ira, attira su di sé guerre inutili e compromette la concordia sociale spargendo il sangue di molti e per ultimo il proprio. Cade in rovina perché viene indotto a punire fatti non appurati e reputa eterna la sua forza, che più s’innalza più vacilla. Neppure intende che sulla scena rifulgente di beni vani in cui vive e governa deve aspettarsi solo avversità».
A questo proposito Seneca cita il caso famoso di Serse, re di Persia: «Già folle per una considerazione eccessiva di sé ed eccitato oltremodo dagli adulatori quando si propose d’invadere la Grecia, si sentì dire dal solo Demarato – lacedemone di stirpe regale esule in Persia —: “La Grecia ti vincerà, perché dispone di un esercito mentre tu hai solo un’accozzaglia di popoli”. Verificatasi la sconfitta predetta, Serse ringraziò Demarato, perché era stato l’unico a dirgli la verità». Pare a me che Seneca stia a Nerone come Demarato lo fu a Serse, sovrani entrambi che non ascoltano i consiglieri di verità preparando le loro brutte fini.
Seneca aggiunge – in un ultimo afflato di fiducia —: «Importa a me fare intendere come sia facile dimostrare la propria riconoscenza anche alle persone baciate dalla fortuna e all’apice della potenza. Basta dire loro non ciò che vogliono ascoltare ma ciò che sempre vorrebbero aver ascoltato… Anche le orecchie più frastornate da adulatori possono essere raggiunte da un discorso veritiero». Infine constata: «È forse poco liberare quei potenti dalla fiducia stolta, ricordando loro che le cose date dalla sorte sono mutevoli, ch’esse possono lasciarli più rapidamente di quanto non siano giunte e che non è possibile retrocedere per gradi allo stesso modo con il quale hanno raggiunto la potenza? Grande è il valore dell’amicizia, da nessuna parte tanto scarsa come là dove si pensa che abbondi. I libri contenenti i nomi di coloro che bussano alle porte dei potenti sono forse elenchi di amici? Gli atri dei fortunati sono luoghi pieni di uomini, non di amici, ché la sede degli amici è il cuore. Questo ai potenti va detto».
A questo punto m’interrogo se esista oggi nella cittadella del Cremlino o in qualche altra reggia dorata un Demarato o un Seneca per il Serse russo di oggi. Altrimenti il destino dello zar, bramosissimo anche lui d’invasioni – Caesar della terza Roma – parrebbe segnato. Il generale russo Ivan Popov ha detto: «La scelta è tra rimanere in silenzio, intimoriti, e dire ciò che vogliono sentire, oppure dire le cose come stanno veramente. In nome dei caduti non posso raccontare bugie», ed è stato subito destituito.
Nell’ultimo libro del trattato Sui benefici s’intravede una svolta drammatica imprevista: siamo probabilmente al fatidico 62 – anno dell’allontanamento di Seneca da Nerone —, se non si tratta addirittura di qualche anno successivo, ancora più oscuro e minaccioso. Scrive Seneca: «Se il mio benefattore – allude nuovamente a Nerone – è diventato crudele e a danno di tutti, come lo furono i tiranni Falaride e Apollodoro, gli renderei comunque i benefici ricevuti – la grande ricchezza ricevuta a compenso del suo servizio —, in modo da non aver più nulla a che fare con lui. Se però non soltanto gode del sangue umano ma se ne nutre; se alimenta una crudeltà che non si sazia torturando persone di ogni età; se infierisce assetato di esecuzioni – le prime volute dal nuovo prefetto Tigellino; se sgozza i figli sotto gli occhi dei genitori; se insoddisfatto dalla semplice morte brucia e arrostisce le proprie vittime – i Cristiani incolpati dell’incendio di Roma, trasformati in torce umane? – e se la sua rocca gronda sempre di sangue fresco – quelli di Britannico, Agrippina e Ottavia —, allora il non rendergli i benefici è inadeguato. Diventerebbe allora prioritario un altro dovere: quello nei confronti del genere umano. Se i miei benefici non daranno a lui forze ulteriori per la rovina di tutti, io li restituirò – al patrimonio imperiale. Ma per i potenti che mai potranno tornare in sé il migliore rimedio è la morte: risoluzione rara, straordinaria e terribile, come una voragine che si apre nella terra, un’eruzione di fuoco che sgorga dalle profondità marine». È l’assenso del filosofo al tirannicidio. La fine di Nerone nel 68 Seneca non la vedrà, costretto a suicidarsi per aver partecipato nel 65 alla congiura di Pisone. Ma nel 68 Nerone stesso, inseguito dalla guardia, sarà costretto a suicidarsi, sostenuto solo più da cinque liberti e due nutrici: gli ultimi amici rimasti…
Qualche decennio dopo Tacito racconterà il principato demagogico dell’ultimo Cesare, pare a me con maggior verità degli storici di questa stagione populistica che si sono proposti di riabilitarlo come dittatore democratico. Ma le motivazioni più profonde del principe istrione – i suoi modelli – restano ancora da scoprire e interpretare. Come che sia, nessuno è stato più arcaico e attuale di Nerone, soprattutto quando si è esibito con il re di Armenia – fratello del re dei Parti da lui appena intronizzato – al centro di un aureo set: il vestibolo, la residenza e lo stagno allestiti sulle pendici della Velia, descritti poi da Svetonio. Durerà lo spazio di un mattino quella Versailles urbana, replicata in tono minore sull’Oppio. Vespasiano trasformerà il vestibolo in un santuario del Sole, oblitererà residenza e stagno per dar luogo al Colosseo e la replica sull’Oppio, subito svuotata delle opere d’arte – fra queste il Laocoonte trasferito nella casa di Tito – verrà prima chiusa e poi seppellita sotto le terme di Traiano.