Corriere della Sera, 30 luglio 2023
Alle quattro di notte, Edoardo Bennato allunga le gambe, si stira sulla sedia, apre il cellulare e si mette a declamare una chat di WhatsApp fra lui e Mauro Corona, lo scrittore, come se potessimo stare qui fino a domani mattina
Alle quattro di notte, Edoardo Bennato allunga le gambe, si stira sulla sedia, apre il cellulare e si mette a declamare una chat di WhatsApp fra lui e Mauro Corona, lo scrittore, come se potessimo stare qui fino a domani mattina. Nella hall di questo hotel di Bergamo ci siamo solo noi due e il suo manager che ormai gira attorno al nostro tavolo con sguardo da condor. Bennato, 77 anni, è nel pieno di un tour, ha appena fatto due ore e mezzo di concerto saltando che neanche Mick Jagger. Sta raccontando di quando nel ’69 Lucio Battisti gli dava uno strappo sulla sua Duetto e gli diceva «ahò, non te preoccupa’ verrà il momento tuo». E di quanto a Fabrizio De André piacesse stare con lui e i suoi «amici del cortile», quelli cresciuti con lui a Bagnoli, gli stessi musicisti che sono crollati e si sono ritirati assieme al portiere di notte due ore fa. Dice: «Fabrizio schifava tutto il mondo della musica, tranne noi. Stava sempre con una sigaretta accesa in una mano e un whisky nell’altra. Posava il whisky solo per accendere una nuova sigaretta dall’altra sigaretta. Ultimamente, come lui, ho visto solo Mauro Corona, ma lui va a vino… Le leggo i messaggi… Mi chiama “vecio alpino” pure se sono di Napoli. Bennato legge e ride sotto gli occhiali scuri da rockettaro. Per cominciare, gli avevo chiesto come facesse a essere così in forma e lui, con quell’aria beffarda tutta sua: «Da una parte, ci lamentiamo della vulnerabilità di noi esseri umani, dall’altra, predichiamo buon senso, ecologia, evitare cose che ci fanno male e che invece assumiamo in modo schizofrenico, perché sono schizofreniche la nostra condizione singola e collettiva. La maggioranza degli umani va allo scatafascio come guidata da Lucignolo nel Paese dei balocchi».
Quindi? Come fa a stare così in forma?
«Potrei dire: lo sport. E in più, appena percepisco che qualcosa non mi quadra, lo evito. A 15 anni, trovai quegli oggetti strani: le sigarette. Ne provo una e dico: che schifo. E tutti: sì, ma poi ti abitui. Siamo un pianeta di masochisti. Io sono punk e isterico perché vivo in una società che si dice acculturata, si vaccina e poi si fa male in modo violento, con alcol, fumo, droghe…».
Lei fa rock e non ha mai preso droghe?
«Il mio modo di essere eversivo non è questo. Mi piace la vita, un prato verde, giocare a calcio, inebriarmi sul windsurf del rumore del vento. Le stavo parlando dello sport: lo sport è stringere la mano all’avversario che ti ha superato. Quindi, è un’arte nobile. Però c’è una differenza fra sport e attività artistica: nello sport, un numero sancisce la tua capacità rispetto agli altri; mentre nell’arte, nella musica, tutto passa attraverso le forche caudine dei media. L’ho imparato quando, dopo nove anni di gavetta, uscì il mio primo album, Non farti cadere le braccia, e il direttore della Ricordi mi disse: Un giorno credi è bella, Una settimana e un giorno pure, però, a Radio Rai dicono che hai la voce sgradevole e non le trasmettono, quindi, per noi, finisce qui. Ti consiglio di cambiare mestiere».
Lei si era appena laureato, però non si mise a fare l’architetto. Perché?
«Perché, a Londra, mi ero costruito un tamburello a pedale come gli artisti di strada. Scrissi dei pezzi punk e mi misi a suonarli davanti alla Rai: Che bella città; Salviamo il salvabile; Arrivano i buoni, “… arrivano i buoni e hanno le idee chiare e hanno fatto un elenco di tutti i cattivi da eliminare”. Passa un direttore della Rai e mi porta a un Festival a Civitanova Marche dove l’intellighenzia di sinistra pensò che potevo rappresentare l’insoddisfazione giovanile. M’iscrissi a tutti i festival, facevo quattro o cinque brani compreso Uno buono, sfottò a Giovanni Leone. Nel ’73, era concesso sfottere il presidente della Repubblica, anzi, era una nota di merito».
Stavolta, arriva il successo.
«Ero protetto da una sorta di entità che sovrintende cultura, arte e musica, poi, l’entità si rese conto che non ero controllabile. Ma recriminare non mi è concesso. Va bene così, perché fare rock mi diverte e quello che importa è passare vibrazioni positive a chi viene ai concerti».
L’«entità» l’abbandona perché lei non è ascrivibile né alla destra né alla sinistra, perché, in fondo, in Che bella città spernacchiava sia Faccetta nera sia Bandiera rossa?
«Nel 2016, ho scritto Pronti a salpare, sugli immigrati, e nessuno l’ha fatta sua. O, nel 2003, Fausto Bertinotti disse che tutti avrebbero dovuto ascoltare Bennato, ma pure lì, l’unica cosa che è cambiata è che ora ci sentiamo spesso noi due per parlare di geopolitica. Solo che Fausto divide il mondo in buoni e cattivi, io parlo di umanità adulta e umanità bambina. Sostengo che la famiglia umana delle latitudini dove c’è un’escursione termica forte fra le stagioni ha progredito, dovendo aguzzare l’ingegno per adattarsi ai climi mutevoli, diversamente dall’umanità bambina dove la temperatura è più costante. A partire da Cristoforo Colombo, le due umanità non si sono riconosciute ed è proliferato il razzismo».
Com’era fatto il Sud da cui è partito lei?
«Papà si svegliava alle cinque, prendeva la bici, andava all’Italsider. Mamma si organizzava per far sì che lo stipendio bastasse, non avevamo frigo né televisore, ma, allo stesso tempo, lei voleva che noi tre figli avessimo sempre qualcosa da fare, per cui, d’estate, ci cercò un maestro di musica. L’ozio, per lei, era il male».
Non voleva sapervi scugnizzi per strada?
«Sì, finì che io avevo tredici anni e col Trio Bennato stavamo già in America, a suonare sulle navi da crociera, avevo passato Gibilterra, visto continenti di persone con la pelle nera. Ho conosciuto Salvador Allende nel ’61, a 15 anni, faceva il medico e non si faceva pagare dai poveri, però era circondato dai capipopolo incapaci».
Dopo, si laureò solo per far felice i suoi ?
«Mi iscrissi ad Architettura a Milano perché lì c’erano le case discografiche, e io volevo fare la musica, ma certe cose le fai per input che ti arrivano in modo subliminale dalla mamma. Gli uomini che hanno stima della mamma sono uomini che amano e rispettano le donne e infatti io, le donne, le ho sempre rispettate».
La sua era la madre di «Viva la mamma»?
«Maestra di scuola, donna senza tante ciance, mise su un asilo dove sceglieva le maestre guardando l’affetto che avevano per i bambini».
Lei è stato il primo italiano a essere definito punk. Che ne sapeva del punk?
«Era il ’73, pure in America arrivò dopo. Era il mio modo istintivo di non essere definito e di cantare un mondo che non è definibile. Per esempio, “sul giornale c’è scritto puoi fidarti di me. Il peggiore di tutti si è scoperto chi è”. Poi, leggi i quotidiani e ognuno ha il suo cattivo. Io ho cantato contro la guerra, contro il Papa, ho cantato: affacciati affacciati, benedici, guardaci, tanto sono quasi duemila anni che stai a guardare. E ho irriso pure me se stesso. Ho detto che sono solo canzonette e ho scritto Cantautore: tu sei saggio, tu porti la verità ah ah ah».
Nel 1980, fu il primo a riempire San Siro.
«Ho potuto farlo perché ero circondato dai compagni d’infanzia, quelli della scala B, della scala D… Abbassammo il biglietto anche a mille lire, mentre per i Pooh ce ne volevano magari dieci. E facemmo 15 stadi in 30 giorni, mezzo milione di presenze. Invece, negli anni ’70, ai concerti, arrivavano i picchiatori, fascisti pure se non erano di destra. Ci menavano quelli di Avanguardia Operaia, di Lotta continua. A Pesaro, nel settembre ’67, siccome avevamo suonato alla Festa dell’Unità, arrivarono in 15 scandendo: Bennato, Bennato, il sistema ti ha comprato. Pensavano di farci paura, ma io dissi: chi sono questi scornacchiati? E io e i miei gli saltammo addosso lanciandoci dal palco. I figli di papà se la videro con noi figli di operai. Io mi presi una coltellata alla schiena, ma ogni volta erano pugni, sprangate».
A quale sua canzone lei è più legato?
«A Le ragazze fanno grandi sogni, perché individuo il mondo femminile come depositario del buon senso che manca a noi maschi. Noi abbiamo perso ogni legame con la natura».
Si diceva che l’avesse scritta in memoria di Paola Ferri, la fidanzata che perse nell’incidente del ’95, mentre l’accompagnava a casa.
«Era una studentessa di Pedagogia. Guarda caso, figlia di contadini: era propositiva, pratica, piena di prospettive. Ma parliamo d’altro».
Le chiedo quanto è stato importante l’amore, per lei, dato che non l’ha cantato tanto.
«Certo che l’ho cantato. Una settimana un giorno fu tra le prime canzoni che scrissi: vorrei che mai mai mai mai mai nessuno al mondo mai potesse rubarti, portarti via lontano…».
Della mamma di sua figlia Gaia non si sa niente. State ancora insieme?
«Certo. Gaia, 18 anni, l’abbiamo fatta crescere nell’armonia, infatti, è stupenda, sa fare tutto, è per me quello che è stata mia madre. L’ho avuta a quasi 60 anni con una ragazza che non solo l’ha fatta bella, ma che vive per lei. Suo padre me l’aveva detto: Silvana, da sempre, vuole solo diventare mamma. Io avrei voluto una squadra di calcio, sono pure un esperto di cambio pannolini. Penso che i figli ti aggancino alla realtà».
Perché ha attinto tanto alle favole? Ha usato Pinocchio, Peter Pan, Mangiafuoco…
«Perché c’è nelle favole tutta la schizofrenia di cui le parlavo. Pensi al pifferaio: salva la città dai topi, ma poi la gente non lo sostiene quando il sindaco non vuole dargli il milione che gli ha promesso. Parla della gente che, quando deve far valere i propri diritti, non lo fa».
Com’è nata «Un’estate italiana»?
«Quella sigla d’Italia ’90 non volevo farla, sapevo che non me l’avrebbero perdonata. Giorgio Moroder ci mise la musica, io e Gianna Nannini i testi. L’espressione “notti magiche” la misi io, ma era dell’amico Gino Magurno. La frase “e dagli spogliatoi escono i ragazzi siamo noi” è di Gianna. Avevo ragione, comunque: un critico musicale mi disse che ero stato un eroe finché non mi ero messo a sgambettare col pallone».
Riferimenti
Ho conosciuto Salvador Allende nel 1961, a 15 anni. Faceva il medico e non si faceva pagare dai poveri. Oggi mi sento spesso con Bertinotti: parliamo di geopolitica
Ora, alle quattro, lei, quanti anni si sente?
«Come dice mia figlia, sempre 55. Lo disse pure a papa Ratzinger quando fu ricevuta. Padre Georg le chiese dov’ero. E lei: ha fatto tardi e non si è svegliato, pensa di avere sempre 55 anni».