La Lettura, 29 luglio 2023
Storia della riforma Gentile
Cent’anni fa nasceva la riforma Gentile: la più importante riforma scolastica italiana del XX secolo, creazione del filosofo che divenne ministro della Pubblica istruzione nel primo governo Mussolini. La nuova normativa, articolata in cinque decreti-legge emanati fra la fine del 1922 e il corso del 1923, modificò tutti i gradi e gli ambiti dell’istruzione pubblica, orientando il percorso formativo di generazioni di italiani, restando sostanzialmente immutata fino agli anni Sessanta, e divenendo da subito un punto di riferimento del dibattito pubblico sull’educazione dei giovani.
Recentemente è stata citata dal ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara che ha dichiarato di voler procedere in direzione opposta a quella voluta da Gentile. A Bari, a fine maggio, in un convegno sul futuro della scuola, il ministro ha sottolineato l’incompatibilità fra una riforma che antepone lo Stato all’individuo e l’attuale ordinamento costituzionale; ha sostenuto l’importanza del merito e della selezione affermando, tuttavia, di non volere una scuola classista; e, da ultimo, ha definito superata l’egemonia del liceo classico. Quale sia l’identità culturale del progetto del ministro leghista non è così chiaro perché, in effetti, queste dichiarazioni contro la riforma Gentile possono portare ad esiti molto diversi, come dimostrano le tante critiche che l’hanno accompagnata, da destra e da sinistra, negli ultimi cento anni.
Discussa dagli stessi fascisti, che iniziarono a ritoccarla nel 1925 perché la consideravano elitaria e poco funzionale alle esigenze del regime, nel dopoguerra fu oggetto di aspre critiche: in particolare negli anni Sessanta fu accusata di essere espressione di una concezione aristocratica dell’educazione e di avere ostacolato una seria diffusione del sapere scientifico. In tempi più vicini, vi è chi l’ha chiamata in causa per difendere la cultura classica e l’importanza di una scuola pubblica selettiva. Lo ha fatto più volte Ernesto Galli della Loggia sostenendo che la svalutazione del merito, a suo avviso prodotta del Sessantotto, ha coinciso con la crisi e poi l’arresto dell’ascensore sociale, cioè della possibilità per le persone provenienti dagli strati inferiori della società di passare a quelli superiori.
A destra come a sinistra, fra l’altro, molti rilevano che a partire dagli anni Novanta, seguendo gli orientamenti dell’Unione Europea, le scelte del legislatore sono state indirizzate ad assecondare le richieste del mondo del lavoro e quindi del mercato. La nostra scuola sarebbe ormai da anni finalizzata all’accrescimento dell’occupabilità dei ragazzi e della produttività collettiva. Diretta a perseguire risultati, misurati su performance, non sarebbe in grado di garantire un compiuto percorso formativo perché impegnata a raggiungere obiettivi contingenti e non figlia di un progetto culturale ambizioso, come era quella di Gentile. A cent’anni dalla sua nascita, dunque, la riforma del 1923 continua ad essere utilizzata come metro di confronto. E forse, allora, occorre ricordarne i tratti essenziali.
All’indomani della Grande guerra, in un Paese di quaranta milioni di persone, con un tasso di analfabetismo che raggiungeva il 30 per cento della popolazione e al sud arrivava al 50, la scuola uscì dalle discussioni delle associazioni di categoria ed entrò a far parte dei programmi politici dei nascenti partiti di massa, alle prese con una società distrutta dalla guerra. Da allora divenne un tema centrale dello scontro politico.
Convinto che il fascismo avrebbe dato vita a uno Stato nuovo, Gentile fornì al governo Mussolini una soluzione. Prima di stabilire come gestire le forze sociali in campo, contemperando i loro diversi interessi, prima di pensare all’assetto istituzionale dello Stato, e prima di rispondere alle necessità economiche dei soggetti produttivi, per Gentile creare un nuovo Stato significava costruire una comunità che sente di essere tale. Negli anni della Grande guerra aveva assunto posizioni antidemocratiche, antiliberali e antisocialiste sulla base di una concezione religiosa della politica, considerata come una fede che avrebbe trasformato la vita degli uomini. In questo senso, la sua riforma non era fascista perché il progetto pedagogico che la animava nacque prima e indipendentemente dal regime. Tuttavia, era la riforma di un conservatore, un liberale di destra, che divenne convintamente fascista e che considerava l’educazione delle giovani generazioni come parte essenziale del suo progetto politico e culturale.
Il suo principio cardine, «poche scuole ma buone», non promuoveva l’estensione della popolazione scolastica ed era diretto a sviluppare le capacità dei giovani, a formare italiani consapevoli e a creare una classe dirigente colta e capace. Dopo le elementari, i ragazzi accedevano alle scuole medie di primo e di secondo grado. Facevano parte del primo gruppo: il ginnasio, il corso inferiore dell’istituto tecnico, quello dell’istituto magistrale e la scuola complementare. Le scuole medie di secondo grado erano: il liceo classico e il liceo scientifico, il corso superiore dell’istituto tecnico e di quello magistrale, il liceo femminile. Come è noto, soltanto il liceo classico consentiva l’iscrizione a tutte le facoltà universitarie. Era la scuola più prestigiosa, quella alla quale avevano accesso i migliori, ed era anche l’apice di un sistema educativo che, dopo le elementari, divideva nettamente i pochi che avrebbero proseguito gli studi dai tanti destinati agli istituti professionali.
La centralità dello Stato fu ben visibile anche nella organizzazione delle università, divise in tre gruppi: facevano parte del primo gruppo quelle completamente finanziate dal sistema pubblico, che erano del tutto autonome e dovevano garantire le quattro facoltà tradizionali (Medicina, Giurisprudenza, Lettere e filosofia e Scienze) a cui si aggiunsero i Politecnici. Il secondo gruppo riuniva gli atenei che ricevevano alcune sovvenzioni pubbliche, finanziandosi prevalentemente con i contributi dei privati e degli enti locali, ed erano soggetti a controlli da parte di ispettori statali. Infine, vi erano le università libere, che si autofinanziavano, ma avevano un’autonomia amministrativa e didattica limitata e strettamente vigilata.
Dunque, un sistema educativo statale e nazionale, strumento di quello Stato etico che Gentile teorizzava da prima della guerra mondiale e che immaginò di realizzare nel totalitarismo fascista. Di tutto questo non è rimasto nulla e a poco vale interrogarsi sui singoli aspetti della riforma del 1923: molti sono stati eliminati con il venire meno della dittatura, altri sono sopravvissuti al passare del tempo. Altri ancora hanno resistito fino al 1962, quando i governi di centrosinistra hanno istituito la scuola media unificata, figlia di un mondo profondamente diverso da quello del 1923 che poi nel 1969 ha liberalizzato l’accesso alle facoltà universitarie sancendo di fatto la nascita dell’università di massa.
Un secolo dopo la riforma Gentile, noi difendiamo il diritto di tutti, come recita l’articolo 34 della Costituzione, di raggiungere i gradi più alti degli studi. Siamo consapevoli delle contraddizioni e delle ambiguità della democratizzazione del sistema, ma anche del fatto che negli ultimi trent’anni la scuola ha perso il suo tradizionale monopolio a fronte di un moltiplicarsi di agenzie educative. E allora, come ha scritto Claudio Giunta, difendiamo il liceo classico – molto cambiato anch’esso – non certo perché scuola elitaria, ma perché riteniamo che non abbia mai ostacolato la diffusione delle scienze e soprattutto pensiamo ai pochi o molti ragazzi che vogliono conoscere il passato, a quanti vorrebbero studiare senza pensare a una diretta utilità pratica della loro fatica, magari perché amano la letteratura o la storia, come è accaduto a molti di noi alla loro età.