Avvenire, 29 luglio 2023
Gli autori che evitarono di pubblicare in vita
È sempre delicato decidere se pubblicare un’opera se lo scrittore non c’è più. I casi di Virgilio e di Kafka sono così esemplari che verrebbe di cercare altre nascoste analogie. Kafka muore a 41 anni, Virgilio a 51, età breve anche per quel tempo.
Entrambi sono autori essenzialmente di tre opere: Bucoliche, Georgiche, Eneide; America, Processo, Castello. Quelle di Kafka tutte senza l’ultima mano né la penultima. Di Virgilio solo l’Eneide. Incompiute, giganteggiano su opere di altri, anche notevoli scrittori, compiutissime. Erano due timidi e due incontentabili, perfezionisti spauriti gettati nel mondo in cui gli capitò di vivere.
Entrambi ebbero a che fare col potere, uno da vicino, l’altro con un potere invisibile, onnipresente e aumentato dalla vittima.
Potere che fu la tremenda Musa di ogni sua pagina. Virgilio si rese invisibile lui ad Augusto. Lo infilò nell’Eneide nel modo più lunsinghiero per l’imperatore e innocuo per l’opera. Kafka e le donne, Virgilio e le donne sarebbe un altro buon termine di paragone?
Kafka ebbe tre sorelle e tre fidanzate. Della vita di Virgilio sappiamo troppo poco, ma non è improbabile che fosse circondato di sorelle, cugine, nonne, zie, amiche. Poi ci sono gli amici che fecero il grande rifiuto, ad entrambi, al momento della spiazzante richiesta. «Non mai io lo vidi sorridermi, rado compiacermi, e sempre sollecito a mortificarmi nell’amor proprio, cioè nel mio lato più sensitivo», scrive Belli del padre in un’autobiografia giovanile. E sembra Belli che traduce Kafka. Circondò di cautele i suoi spericolati sonetti romaneschi: li dava da leggere agli amici più fidati raccomandando riserbo; a un monsignore amico suo, per via dell’aperto anticlericalismo e la licenziosità dire che lì parlava la plebe romana, lui stesso lo sapeva un argomento troppo tenue – e finì che non ne pubblicò nemmeno uno risparmiandosi una serie di dispiaceri.
Quando un sonetto scappava per le strade manoscritto, sudava freddo. La vena romanesca esplode alla fine degli anni anni Venti, si esaurisce verso la fine dei Quaranta. Nel ’31 appronta l’introduzione che andò correggendo fino al ’47 e che nessuno lesse, solo quegli amici intimi, prima della morte. Conosceva la forza di ciò che “il popolo” gli andava gridando ma la temeva e temeva le reazioni. Nel testamento chiede al figlio che siano bruciati tutti i versi romaneschi, «sparsi di massime, pensieri e parole riprovevoli». Lui stesso getta nel fuoco tutte le prime copie in suo possesso. Le belle erano al sicuro da monsignor Tizzani. Kavafis pubblicò due fascicoletti, uno nel 1904, l’altro nel 1910, il secondo contenente 21 testi, sette dei quali già noti per la prima uscita. Le altre poesie le stampava sciolte e le regalava agli amici. «Poi legava un certo numero di questi fogli con un fermaglio metallico e formava la raccolta. Negli ultimi anni della sua vita incollava i fogli, impaginati e con l’aggiunta dell’indice e del titolo, su un cartoncino a modo di copertina». Questo è tutto quello che pubblicò in vita. Tra le molte che lasciò inedite, alcune le chiamava “segrete”, altre “rifiutate”. Che furono pubblicate tutte dopo, naturalmente. Pontani dice “arbitrariamente”, anche se tra le segrete «ci sono delle vere gemme». Baudelaire fu un altro grande incompiuto, ma cominciano ad essere troppi, di tale statura che “incompiuto” per loro vorrà dire qualcos’altro. Avrebbe voluto dare a Lo Spleen di Parigi un tono o più di uno ma in modo che ne risultasse una parziale armonia. Ma ogni volta che prendeva la penna gliene veniva uno diverso. Intendeva arrivare a 100 o almeno a 66, ma arrivò a 50.
Lo fermò la morte e la stampa dello Spleen de Paris, due anni dopo, anche questa non fu arbitraria. A quarant’anni dall’ultima pagina dello Spleen - “I buoni cani” -, Pessoa cominciava il suo inconsapevole spleen di Lisbona. Su certi fogli che andava scrivendo, tra i tanti cui dava diversa destinazione, scrisse in un angolo: «Livro do desassossiego», “Libro dell’inquietudine”. Per non sentirsela addosso tutta lui, l’attribuiva a Bernardo Soares, uno dei vari eteronimi o semi-eteronimo. Non fece a tempo a pubblicarlo quel libro, nè a terminarlo o ordinarlo. Più che di libro incompiuto i critici parlano di libro ipotetico. Ma potremmo dire “infinito”, dato l’autore e la sostanza di quei fogli. Il Libro dell’inquietudine uscì nel 1982, a mezzo secolo dalla morte di Pessoa.
L’ordinamento non è dell’autore, ma che importa? Si potrebbe prescindere anche da un titolo, dal nome dell’autore, perfino, che ha scelto di essere molti per non essere nessuno