Robinson, 29 luglio 2023
Achille Bonito Olivo mastica Picasso
«Non domandatemi chi sono e non chiedetemi di restare lo stesso: è una morale da Stato civile: regna sui nostri documenti». Questa affermazione di Michel Foucault nell’Archeologia del saperesembra appartenere alla difesa di un interrogatorio ideale all’imputato del secolo: Pablo Picasso, di cui ricorre il cinquantenario della morte. Insistendo un po’, con le buone e cattive maniere, credo che a domanda Picasso risponderebbe: «Io sono il Gran cannibale». La confessione riguarda il doppio versante dell’opera e della vita privata. In entrambi i casi l’artista spagnolo ha praticato in un’unica strategia due complessi antistanti del codice psicanalitico: quello di Laio e quello di Edipo.Sicuramente nella vita, nel suo erotismo mediterraneo e controriformista insieme ha fomentato e provocato disastri familiari: suicidi ed immaturità filiali intrecciati a disperazioni muliebri. Dalla precoce e mozartiana produzione adolescenziale fino alla febbrile creatività tizianesca degli ultimi anni, egli con insopportabile grandezza ha divorato, masticato, digerito ed espulso frammenti, dettagli e resti della storia dell’arte, da quella primitiva ai giorni nostri. Vero cannibale egli era portatore sano di una posizione amorale, psicologicamente esente da ogni senso di colpa e pronto a interdire con la sua prodigiosa creatività il lavoro artistico del padre, lui pure pittore.Tutto questo senza la frontale crudeltà del figlio, piuttosto, con materno riconoscimento del suo inevitabile stato di grandezza datogli dalla Natura. Riconoscimento quasi materno del figlio verso la modestia di un padre, immediatamente cancellato con l’assunzione del solo nome della madre: non più Pablo Picasso Ruiz ma soltanto Pablo Picasso. Divorato il padre con un semplice colpo anagrafico, sistemato il piccolo presente del proprio quotidiano familiare, Picasso passa alla storia dell’arte.Qui egli trova prima suoi sfortunati coetanei, altri artisti delle avanguardie storiche che lavoravano per rinnovare il linguaggio secondo attitudini specializzate: Matisse, Braque, Boccioni, Balla, Duchamp, Dalí, Miró, Mondrian, Ernst, Leger e altri. Questi, con etico spirito di rinnovamento, si adopravano ad erigere la piramide dell’arte contemporanea, febbrili portatori di una manodopera specializzata: espressionismo, futurismo, dadaismo, astrattismo, costruttivismo ecc. Ognuno di loro partecipava puntando sull’ossessione di un processo creativo in cui stile e comportamento trovavano conferma attraverso la ripetizione. Si sentivano moderni e riconoscibili proprio per questo. Come per ogni prodotto che circola nella società moderna la ripetizione stilistica ne conferma la bontà esecutiva e la riconoscibilità del suo artefice.Picasso no. Egli per eccesso di salute fisica ed artistica, affida la riconoscibilità dell’opera all’antipatia del proprio genio personale. Un genio eclettico e volubile che non si consegna allo stile ma alla mutazione delleforme. Contraddizione al trend collettivistico del XX secolo, in quanto individuabile come genio. Antipatico per necessità, non sincronico cioè al pathos ripetitivo della produzione contemporanea. La febbre da cercatori d’oro delle avanguardie storiche senza dubbio è parallela allo spirito del capitalismo che sperimenta nuove condizioni produttive nel XX secolo. Essere moderni perciò significava per gli artisti accettare lo spirito puritano di ricerca nel grande sistema industriale internazionale. Il ready-made di Duchamp rappresenta lo Zeitgeist di tale atteggiamento, l’eroico sforzo dell’arte di sintonizzarsi col mondo. Picasso, l’antipatico, attua un comportamento non simpatetico: «Io non cerco, io trovo». Egli, fuori da ogni ansia, con un senso di onnipotenza infantile, si afferma centro di un mondo che va nella direzione della sua bocca. Urano moderno con forti mascelle, pronto a masticare presente, passato e futuro. Il presente, i suoi fratelli compagni di strada, lo ha divorato con precoce prontezza linguistica piegando espressionismo, cubismo, futurismo, surrealismo e dadaismo ai suoi appetiti espressivi.Picasso nel suo priapismo creativo, nella sua natura solare e notturna insieme, ha stabilito con la realtà un rapporto di necessità vitale, il riconoscimento della bontà di resti che non si adultereranno mai, fuori da ogni scadenza come sono le opere d’arte. Perciò ha cominciato poi a divorare l’arte del passato, da Goya a Velázquez, ha viaggiato confrontandosi con l’arte del Rinascimento, inciampando nella insuperabilità di un altro artista totale, Michelangelo. In questo inciampo egli ha sentito finalmente la compagnia del mondo. Eppure Picasso resta un artista contemporaneo che riesce anche a confrontarsi con le tragedie della nostra storia, per esempio Guernica. Adopera una intenzionale riduzione dellascomposizione cubista verso l’astrazione, una maggiore tenuta verso l’uso del codice figurativo. Un’opera prevalentemente in bianco e nero, pronta ad essere moltiplicata attraverso la tipografia del manifesto. Dall’altra con voluta banalità disegna la “colomba della pace” come un gadget ideologico.Inoltre, con una sorta di sensibilità telematica ha compreso la realtà virtuale della storia dell’arte scardinando presente, passato e futuro. Infatti, egli paradossalmente ne ha divorato anche il futuro di quella che si è svolta dalla sua morte fino ai giorni nostri. Egli ha divorato con l’impiego dell’oggetto quotidiano, ild’après e la citazione pittorica degli stili, anticipando new dada e pop art, nouveau realism, arte povera, transavanguardia. Dimostrando valida la diagnosi o la condanna di Paul Valéry: «In Picasso il circolo è chiuso». In fondo il Gran cannibale ha piegato con la sua arte a venire il mondo presente al suo consenso: Museo e Denaro.Il desiderio preso per la coda non è solo il titolo di un suo testo teatrale, ma la sua poetica e dichiarazione di guerra alla storia dell’arte: il desiderio creativo degli altri artisti preso e ingoiato nelle sue forme come topolini. Parola del sottoscritto, un critico notoriamente non vegetariano.