La Stampa, 28 luglio 2023
Geolocalizzarsi per consegnarsi all’altro
L’ipersensibilità al controllo, psicosi che il Covid ha prima allentato e poi acuito, è un’intolleranza piena di incongruenze. È un sì travestito da no, un’ipocrisia un po’ psicotica, quasi una sindrome di Stendhal. E certo, proviamo a disintossicarci da internet, smartphone, social network, dating e chat, e lo facciamo, in fondo, per obsolescenza dei mezzi (persino quello che non muore, invecchia: Facebook è un reparto geriatrico; TikTok sembra sempre di più un videogioco anni Ottanta). Ma proprio in mezzo a questo digiuno intermittente, diventiamo dipendenti delle App che dicono dove ci troviamo e, soprattutto, dove si trovano gli altri, con precisione spaventosamente millimetrica. “Trova il mio iPhone”, la funzione che era stata introdotta nei nostri smartphone per renderli rintracciabili in caso di smarrimento, due anni fa è diventata “Trova il mio amico”, per agevolare una nuova metodologia di scambio di affettuosità, sempre più in voga (tra adolescenti soprattutto): geolocalizzarsi. Dirsi dove ci si trova dimostra fiducia e, soprattutto, affidabilità: è una certificazione preventiva. E fa del controllo dei nostri movimenti una prova, un termometro di disponibilità: quanto più mi dici dove sei, tanto meno hai da nascondere. È molto più potente del consegnare il proprio telefono – ricordate, c’è stato un tempo in cui, al culmine di certi litigi coniugali, il marito si cavava fuori dai guai dicendosi disposto a mostrare tutto il suo archivio di messaggistica, così che la moglie potesse verificare che lui non aveva niente da nascondere. Ma assai più che a obliterare fedeltà, geolocalizzarsi serve a consegnarsi all’altro, a dirgli: non muovo un passo senza che tu lo sappia, ti porto con me, siamo coinquilini, conviventi di mappa. Non importa che ci si incontri: importava ieri, due anni fa, ante covid, pre Ia (o Ai).
Prima, la geolocalizzazione era un fatto di necessità: serviva a raggiungersi. Ora, è discorso amoroso, flirt, corte. E gabbia. Il New York Times scriveva ieri che alcune amicizie sono messe a dura prova da questo che sta, di fatto, diventando un seguirsi non per raggiungersi, ma per monitorarsi: uno stalking morigerato, pattuito, consensuale, ma comunque stalking. Se Francesca va al parco senza dire niente a Daniela e Daniela lo scopre nel momento in cui le chiede di geolocalizzarsi, sono guai: Daniela piomba in un tragico vortice di gelosia, risentimento, senso di abbandono. Ci si tradisce con molto meno che un amante: ci si tradisce non condividendo l’intenzione di andare a fare una passeggiata, tenendo per sé una visita al museo, evitando una compagnia. Ci si tradisce tacendo.
Esiste, naturalmente, anche il lato positivo, peraltro anche piuttosto composito: la rassicurazione, prima di ogni cosa. I genitori che, prima, quando i figli non rispondevano al telefono, adottavano soluzioni punk per sopravvivere all’ansia (alcune: telefonare a polizia, Sciarelli, compagni di banco, altri genitori, sindaco, pronto soccorso, pompieri, per chiedere se avessero visto per caso i loro eredi e, se sì, dove, quando, con chi, con addosso che cosa), hanno ora validissimi alleati. Poi, ci sono filantropi generosi Gen Z che si collegano alle App di geolocalizzazione dei loro amici per una ragione semplice: vederli muoversi, spostarsi, li rende felici. Elisa s’entusiasma a sapere che Olga sta andando al mare, e anziché immaginarla in macchina, o in bici, o non immaginarla affatto, vuole vederla sfrecciare, sotto forma di puntino, di cursore, su Google Maps. È una gioia simile a quella che ci prende quando guardiamo un elettrocardiogramma di una persona cara (ma pure di uno sconosciuto) e capiamo che è viva dai segni, dagli impulsi.
Ci sono poi i sedentari: quelli che, in due stanze separate da case, vicoli e palazzi, seduti sul loro divano, mentre guardano un film, tengono acceso il tastino della geolocalizzazione propria e del proprio amico: così si tengono compagnia senza la seccatura del dialogo, del cuscino da dividere, dei pop corn da offrire, del respiro rumoroso da sopportare. E così, soprattutto, si confortano con la vicendevole solitudine. Nessuno dei due si alza, viene interrotto, si sposta: nessuno dei due ha di meglio da fare che stare lì, su quel divano, immobile.
Detestiamo i percorsi obbligati, le identità definite, le religioni monoteiste, il lavoro in presenza, i contratti a tempo indeterminato, perché in ciascuna di queste cose vediamo (sentiamo?) una forza coercitiva che vuole contenerci, inscatolarci, toglierci la possibilità di cambiare, ripensare, rifare: una forza che vigila su di noi per farci perpetrare ruoli, destini, forze sociali secolari. E nemmeno tolleriamo la prossimità, la reperibilità costante, l’assalto delle notifiche, delle mail, dei like, dei dislike. Eppure vogliamo che l’altro ci stia addosso, ci monitori dall’alto, ci soverchi e ci tracci con un’App, come un genitore scomparso troppo presto, e del quale ci mancano, più di ogni altra cosa, le telefonate che iniziavano con «Dove sei?» e finivano con «Chiama quando arrivi». Non c’è carceriere di cui non finiamo per rimpiangere l’attenzione. —