Corriere della Sera, 28 luglio 2023
Il Niger in mano ai militari
A Diamey la roulette del colpo di Stato, il sesto dal 2020 in quella fascia dimenticata dell’Africa che va dal Mar Rosso all’Atlantico, sembra fermarsi quando Abdou Sidikou Issa mette tutte le sue fiche sul numero dei golpisti. È calata la sera e il capo di Stato maggiore comunica a 26 milioni di nigerini e al mondo intero che le Forze Armate dell’unica democrazia rimasta nel Sahel, uno dei Paesi più poveri del mondo, ufficialmente sostengono gli ufficiali che 24 ore prima sono andati in tv per annunciare la fine del «regime che conoscete», ovvero la sospensione della costituzione e la rimozione di Mohamed Bazoum. Non un leader dinosauro qualunque, ma un presidente di 63 anni salito al potere dopo le elezioni del 2021, avendo sventato un golpe.
Questa volta gli è andata peggio: dopo una notte di incertezze, terminate le piogge del mattino, ieri nella capitale hanno sfilato giovani filo-golpisti, al grido di «via i francesi» e con sfoggio di bandiere russe. Mercoledì i militari avevano disperso la folla contraria al golpe, ieri invece hanno permesso che andasse a fuoco la sede del partito del presidente Bazoum. Che quasi in contemporanea su Twitter ostentava fiducia: «Le conquiste della democrazia non andranno perdute», scriveva, mentre gli inviati dell’Ecowas (il gruppo dei Paesi vicini) tentavano un’estrema mediazione.
Putsch «morbido» e condanne dure da parte di molti attori internazionali: Onu, Europa, Stati Uniti. L’Occidente ha investito milioni di dollari in aiuti al Paese alleato più prezioso della regione, il terzo dopo Mali e Burkina Faso a cadere nelle mani di ufficiali golpisti che non guardano più alla Francia (ex potenza coloniale) ma alla Russia di Putin come puntello esterno.
Flussi migratori, guerra ai jihadisti (negli ultimi 5 anni mai così poche vittime come nel 2023), democrazia da rafforzare, lotta al cambiamento climatico: in questa luce perdere il laboratorio Niger è un colpo importante, in particolare per l’Europa. Tuona invano il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, che chiede la liberazione di Bazoum «immediata e senza condizioni». Poi, quando arriva il via libera del capo di Stato maggiore, l’Onu annuncia la sospensione delle operazioni umanitarie, cruciali nel Paese più prolifico del pianeta con tante giovani bocche da sfamare (sette figli in media per ogni donna).
In Niger i militari non sembrano essere così filo-russi come in Mali. E da San Pietroburgo anche il ministro degli Esteri Lavrov chiede «il ripristino dell’ordine costituzionale» a Diamey. Certo, Vladimir Putin in queste ore si prodiga in sorrisi al summit Russia-Africa, dove pure sono arrivati pochi leader (17) rispetto ai 43 dell’ultima volta. Mosca non può certo applaudire a un colpo di Stato che i capi africani deplorano. A Washington, la Casa Bianca scagiona lo zar: «Al momento non abbiamo indicazioni di un coinvolgimento russo o del gruppo Wagner». Ma se nelle strade di Diamey sventola qualche bandiera russa, al tavolo della roulette c’è chi ride. E su Telegram già fioccano gli urrà di commentatori pro-Cremlino, auspicanti l’avanzata della Wagner in un altro Paese, un’altra tacca sul fucile di Prigozhin (che proprio ieri una foto rilanciata da Bangui segnalava a San Pietroburgo in compagnia di un dirigente centrafricano). Magari solo un fake. Ma con il Niger «la fascia dei putschisti» che cinge l’Africa sotto la pancia del Sahara diventa quasi completa. Dalla Guinea al gigante Sudan, dove si combattono ex alleati golpisti (oltre tremila civili morti e tre milioni di sfollati): i miliziani del generale Dagalo, ricevuto a Mosca poco prima dell’invasione dell’Ucraina, guadagnano terreno sull’esercito regolare. Anche 100 giorni fa, quando scoppiò la guerra, Mosca si affrettò a chiedere la pace.