Corriere della Sera, 28 luglio 2023
I killer di Gelsomina Verdi
Quando mi chiamano per avvertirmi che hanno arrestato due camorristi del gruppo che uccise Gelsomina Verde rispondo che non è possibile.
D ico che è una storia troppo vecchia, che di certo si stanno sbagliando perché sono ormai passati quasi vent’anni. E invece è tutto vero: sono stati arrestati Luigi De Lucia e O’Vikingo, Pasquale Rinaldi. Da tempo si sapeva del loro ruolo nell’omicidio. Quei nomi erano emersi dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, ma soltanto ora si è riusciti a trovare l’impegno, la volontà e l’operatività per poterli fermare. L’omicidio di Mina Verde mi torna tutto in corpo non come un rigurgito ma come un ricordo che sono stato costretto – per troppe volte – a ripercorrere.
Era il 2004 e giravo con la mia vespa nera nei territori della faida di Scampia. Avevo 25 anni, ci si muoveva all’epoca da un luogo di un omicidio all’altro. Arrivò un passaparola. Fu segnalato un cadavere vicino a una masseria che ora ricordo disabitata, ma potrebbe essere semplicemente che i proprietari si fossero rinchiusi dentro. Cose che accadevano spesso. Arrivai che già c’era la scientifica con il suo nastro segnaletico bicolore. Non ricordo vigili del fuoco, le fiamme forse si erano già spente da sole o forse i pompieri erano arrivati prima del nostro arrivo. Ricordo che il muso dell’auto conservava ancora tracce di vernice rossa. Era un’utilitaria, forse una Seicento nuovo modello, ormai tutta mangiata dalle fiamme. Nel sedile posteriore lato passeggiero c’era questo corpo completamente carbonizzato. Era stato messo in un sacco e dato alle fiamme insieme all’auto.
In questura ore dopo fu detto ai cronisti che quei resti non erano di un camorrista, come tutti avevano pensato, ma di una donna. Si chiamava Gelsomina Verde, aveva 22 anni. Cadde il silenzio quando iniziò a girare il suo nome. La faida era arrivata anche a questo. Il referto necroscopico dei medici legali parlò di segni di tortura e tre proiettili sparati alla testa.
Gelsomina Verde era un’operaia che lavorava in una delle fabriche di pelletteria dell’area nord. Mina – come tutti la chiamavano – faceva anche volontariato. Sia in un doposcuola che in carcere. È proprio qui che conosce Pietro Esposito detto Kojak. È lui ad adescarla. Le dice che le deve parlare, le lascia intendere probabilmente che è qualcosa di importante che riguarda la sua famiglia.
Mina arriva con la sua Seicento, Kojak la affianca (anche lui in macchina) e mentre le sta parlando per prendere tempo, arrivano secondo quanto lui stesso ha raccontato «Ugo De Lucia, Pasquale Rinaldi e Luigi De Lucia». I tre scendono da un motorino e le dicono con fare perentorio di spostarsi dal posto di guida. Cosa vogliono da Mina? Cosa vuole questa paranza di fuoco che si presenta da una ragazzina inerme? Vogliono informazioni su O’Sarracino, un ragazzo che lei ha frequentato tempo prima. Questo ragazzo, al secolo Gennaro Notturno, è il killer più temuto degli Spagnoli. Devono scovarlo, devono identificarlo: lui ha ucciso – secondo quando sostengono – loro amici. E continua a colpire, va fermato. Mina l’ha frequentato molto prima che si trasformasse in un killer.
Ma cosa lo rende così temuto, O’Sarracino ? Il fatto che non conoscono la sua faccia. Non hanno fotografie. Non riescono a entrargli in casa, il quartiere dove vive è blindato ai Di Lauro. I clan quando hanno necessità di identificare qualche loro nemico cercano una foto, oggi setacciano i profili social e se non trovano nulla provano a fare un’inchiesta che coinvolge parenti e amici. La diffusione di foto sui telefoni ha reso tutto più facile, ma nel 2004 si usava ancora la pratica degli Anni ’60 e ’70: si andava in Comune e si cercava la carta d’identità depositata. In questo caso gli uomini del clan non riescono a trovare niente, negli archivi il loro contatto non trova nulla. Altre volte si andava dai fotografi di comunioni o matrimoni, che hanno archivi pieni di foto ma non trovano abbastanza informazioni su Notturno per battere questa strada. Trovano invece Mina che l’aveva frequentato, trovano un’ex fidanzata e chiedono a lei le fotografie che cercano.
Temono O’Sarracino perché è un killer puntuale, preciso, veloce, prudente e sa essere invisibile. Cosimo Di Lauro è convinto che abbia ucciso il suo migliore amico Fulvio Montanino. Vuole a tutti i costi identificare Notturno. Mina non ha foto. Non solo, non le vuole nemmeno cercare, non vuole – collaborando in qualsiasi modo – mettersi nelle dinamiche della faida. Sa che una volta entrata in queste sintassi a pagare saranno tutti: ogni tuo parente può essere usato come sacco di carne per la vendetta o per inviare un messaggio.
Non c’entra e non vuole ci vuole entrare. Anche solo una parola condannerebbe a morte i suoi familiari, i suoi amici, ogni persona che ha un rapporto con lei. Inoltre non ha più contatti con O’Sarracino da tempo. Da molto tempo. E così la pestano, le rompono il naso, le torturano i lobi delle orecchie, la gonfiano di botte e – prima di spararle e bruciarla – altro ancora su cui dovrei soffermarmi ma non riesco.
L’incubo della morte di Mina non smetterà mai di tormentarmi.