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 2023  luglio 27 Giovedì calendario

Quando la Chiesa sfidò Cosa nostra e la mafia rispose con le bombe


Nella notte tra il 27 e 28 luglio 1993, Cosa nostra faceva esplodere tre autobomba: una in via Palestro a Milano e due a Roma, davanti alle chiese di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio al Velabro. Con quegli attentati, come già con quello agli Uffizi di due mesi prima, la mafia corleonese riprendeva, come hanno stabilito processi e sentenze, la strategia di sfida allo Stato culminata nel 1992 con le stragi di Capaci e via D’Amelio. Ma le bombe romane erano anche una sfida alla Chiesa e alla sua capacità di orientare la cultura antimafia del Paese. Una capacità ritenuta temibile dai mafiosi e che ossessionava il capo di quella Cosa nostra, Totò Riina, che decenni dopo continuava a inveire e a minacciare il Papa che «faceva antimafia».
Il 9 maggio 1993, cioè solo due mesi prima delle bombe alle chiese romane, Giovanni Paolo II aveva pronunciato nella Valle dei templi la sua storica omelia, lanciando la sfida cristiana ai mafiosi, con quel «Convertitevi!» gridato davanti a decine di migliaia di siciliani.
Un’omelia potente, che aveva potuto giovarsi delle conoscenze maturate grazie al maxiprocesso e alle dichiarazioni di Tommaso Buscetta: un passaggio essenziale per superare la sottovalutazione della pericolosità del fenomeno, che era prevalsa fino ad allora, sia nello Stato sia nella Chiesa. Ma il discorso del Papa arrivava anche al culmine di un quindicennio terribile, con centinaia di omicidi, durante il quale sembrava quasi che in Sicilia la vita umana non avesse più valore.
Una situazione eccezionale, difficile da immaginare per chi non abbia vissuto quegli anni, ben rilevata da Giovanni Paolo II quel 9 maggio: «La nostra fede esige una chiara riprovazione della cultura della mafia che è una cultura di morte, profondamente disumana, antievangelica, nemica della dignità della persona e della convivenza civile». E ancora: «Questi che portano sulle loro coscienze tante vittime umane devono capire che non si permette uccidere innocenti! (…). Qui ci vuole la civiltà della vita! Nel nome di questo Cristo crocefisso e risorto, di questo Cristo che è vita, via e verità. Lo dico ai responsabili: convertitevi! Una volta, ungiorno, verrà il giudizio di Dio».
Una condanna netta e senza equivoci, conclusa con accento profetico dall’appello alla conversione e da quel richiamo «al giudizio di Dio» aggiunto a braccio dal Pontefice, profondamente colpito dall’incontro avuto poche ore prima con i genitori del giudice Rosario Livatino, assassinato nel 1990.
E la risposta della mafia non si era fatta attendere.
Le bombe a San Giovanni in Laterano («cuore della Roma cristiana», come disse il cardinale Camillo Ruini) e a San Giorgio al Velabro, seguite a breve dall’omicidio di don Pino Puglisi (15 settembre 1993), rappresentarono allo stesso tempo una “punizione” e una intimidazione a tutta la Chiesa, oltre che la violenta reazione all’intervento del Papa. Il sanguinoso biennio 1992/1993 costituisce così un momento di svolta anche per i cattolici e per la Chiesa. Anche se nel tempo vi erano state chiare prese di posizione ecclesiali, l’eco e l’effetto registrati dall’omelia di Giovanni Paolo II furono un punto di non ritorno al quale sarebbero seguiti l’intervento dei Vescovi siciliani nel 1994(«Mafia e Vangelo sono incompatibili (…). La mafia appartiene al regno del peccato») e poi molti altri, fino all’anatema pronunciato il 21 giugno 2014 da Papa Francesco nella piana di Sibari, in Calabria: «Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati!». Le parole di papa Wojtyla avevano avuto un peso enorme, contribuendo potentemente alla rivolta di larghi settori della società siciliana e italiana che, insieme ai successi dell’azione repressiva, hanno determinato la sconfitta della mafia corleonese.
La migliore conferma viene dalle parole degli stessi mafiosi. Come quelle pronunciate, solo un mese dopo (19 agosto), da un collaboratore di giustizia del calibro di Francesco Marino Mannoia: «Nel passato, la Chiesa era considerata sacra, intoccabile. Ora invece Cosa nostra sta attaccando anche la Chiesa perché si sta esprimendo contro la mafia. È un messaggio chiaro ai sacerdoti: non interferite». E il 4 aprile 2005 – erano già passati dodici anni –, davanti alle immagini tv dei funerali del Papa polacco, un importante boss palermitano, intercettato, avrebbe detto: «Poverino che era. A parte quellasbrasata (esagerazione, sparata fuori luogo, nda ) che ha fatto quando è venuto qua. Una sbrasata un pochettino pesante per i sicilianiin generale». Addirittura vent’anni dopo, siamo nel settembre 2013, lo stesso Riina, intercettato in carcere, si scagliava contro Giovanni Paolo II: «(…) Pentitevi! … Ma che mi pento! Ma pentiti tu! Perché vai facendo questi comizi? Perché sei venuto ad Agrigento? (…) Ha detto “pentitevi! Verrà il giudizio di Dio sull’uomo” (…) Invece di fare il Papa, faceva l’antimafia pure lui! (…) Il Papa si deve fare i fatti suoi, si deve interessare dell’anima, dello spirito (…) e quello si va a interessare alla mafia (…) Non sei un Papa, tu sei un disgraziato, tu sei un prepotente, uno scellerato». Al capo dei corleonesi, da vent’anni al 41bis, ancora bruciava l’omelia del Pontefice e ne ricordava con precisione l’invito al pentimento. Fino a citare, forse come un oscuro presagio, quelle parole finali: «Una volta, un giorno, verrà il giudizio di Dio».