La Stampa, 27 luglio 2023
Piccoli schiavi crescono nei campi
«Pompo i fiori». Cosa significa? «Spruzzo il veleno sulle piante, mi pagano 20/25 euro al giorno». Usi guanti e mascherina? «No! Un po’ mi dà fastidio respirare il pesticida, ma è diventato il mio profumo ormai». S. è una ragazza di 14 anni, lavora in campagna da quando ne ha 13. È di origine tunisina, è nata in Italia, vive in provincia di Ragusa. Non siamo sole. Intorno al tavolo con noi ci sono una quindicina di minorenni. Siamo a Marina di Acate, nel Centro Orizzonti a Colori dove Save the Children con l’Associazione «I Tetti Colorati» e la Caritas Diocesana di Ragusa ha scelto di avviare a marzo 2022, il progetto «Liberi dall’Invisibilità». Ragazze e ragazzi dai 6 ai 17 anni, c’è anche qualcuno più grande che ha accettato di incontrarmi. Non è facile fidarsi degli «italiani» quando sin dalla nascita nessuno ti ha mai visto veramente, ti ha mai riconosciuto dignità. Se raccontano chi sono, come vivono, quanto soffrono è solo perché a garantire per me ci sono assistenti sociali, operatori e mediatori che ogni giorno spendono la loro vita e il loro tempo per insegnare la cultura dei diritti. È una generazione nata e cresciuta nelle serre della fascia trasformata. Cos’è? Me lo spiegate? «È una zona isolata dalla città, dalla civiltà. Non abbiamo trasporti, solo da poco ci hanno concesso un pulmino che porta a scuola anche quelli delle superiori. Non è un pulmino del Comune, lo paga la Caritas. Passa a prenderci casa per casa, tranne quelli che abitano molto vicino a Vittoria, dove c’è già un altro servizio attivo». Una prima osservazione geoeconomica della «fascia trasformata» in Sicilia risale al 2007, a firma di Gianni Petino, professore associato di geografia economico-politica all’Università di Catania. Fascia trasformata: 80 km di costa, 5.200 aziende agricole, 28.274 lavoratori e lavoratrici di cui poco più di 15.000 italiani/e e 12.653 stranieri/e. Poi ci sono gli irregolari: chissà quanti sono precisamente. C’è chi stima arrivino a circa il 20% della popolazione su tutta la provincia.
S. che «bomba i fiori», non era ancora nata quando nelle università si cominciava ad analizzare questo «non-luogo», ma ne è rimasta vittima lo stesso. Non siamo riusciti ad estirparlo, abbiamo scelto di tollerarlo e così facendo gli abbiamo rubato l’infanzia e stiamo svendendo anche la loro adolescenza per difendere e tutelare gli interessi del settore agroalimentare. «Io ho lavorato anche stamattina». Siete minorenni, in Italia sotto i 16 anni è illegale lavorare. «Lo sanno tutti che siamo minorenni. Di che ti stupisci? In magazzino ci portano quello che raccolgono nelle serre, abbiamo tipo delle vaschette, le mettiamo sopra alla bilancia e pesiamo i pomodori. Ogni vaschetta non deve essere più di 520/530 grammi». Ricordiamocelo la prossima volta che andiamo a fare la spesa. «A volte lavoriamo anche tutta la giornata, se non andiamo a scuola. Come durante il periodo del Covid. E quando dobbiamo lavorare per forza non possiamo andare a scuola». «Io ho fatto arrabbiare gli operatori del Centro quest’inverno». Perché? «Lavoravo talmente tante ore al magazzino che il pomeriggio non riuscivo a fare il doposcuola. Non ho studiato, avevo tutti voti brutti. Mi servono soldi. Il padrone mi dà 5 euro all’ora». Dunque provo a descrivervi dove siamo. Perché solo visualizzando questo «non-luogo» puoi sentire il peso dell’isolamento, la solitudine, la segregazione che subiscono e raccontano. Distese infinite di serre e capannoni fino a ridosso del mare, divisi tra loro da stradine sconnesse che alle prime gocce di pioggia si infangano al punto da diventare impraticabili. Le stesse serre e campi che con il caldo atroce di questi giorni raggiungo anche 48 gradi. Qui vivono e giocano bambini. La presenza della vita umana è segnalata da vestiti appesi su fili di fortuna. Bici giocattolo accanto ai campi seminati. C’è chi ha l’acqua potabile, chi invece nemmeno quella e si lava con l’acqua piovana raccolta in barili blu. Non ci sono mezzi pubblici, fermate, bar, farmacie, scuole, niente. Nulla. Al tramonto si accendono i roghi di plastica e immondizia, proprio accanto a dove si coltiva e dove respirano i più piccoli. Sono tunisini, rumeni, albanesi. Sono nati in Italia. Se ti ammali e devi andare dal dottore paghi qualcuno per farti portare in città. E se non hai soldi non ci vai. Lo chiamano «caporalato dei servizi». Anche per fare la spesa sei schiavo di un passaggio a pagamento. «Con gli amici non usciamo. Alcune volte chiediamo a loro (operatori, ndr) di accompagnarci tutti a casa di uno di noi, per stare insieme. Non sempre possono però. Siamo tanti». «A mangiare la pizza non ci andiamo. Non ci sono trasporti, ve l’abbiamo già detto. Avete visto dove abitiamo. A piedi non si arriva da nessuna parte». I disagi fisici e psichici causati da tutto questo sono cicatrici sui corpi e negli occhi. «Hanno sbalzi di umore repentini dovuti a situazioni stressanti che vivono sin da quando sono nati o a causa della condizione di deprivazione in cui si trovano quotidianamente. È un fenomeno molto diffuso». «Sono vittime di carichi di lavoro estenuanti ma anche di un carico mentale che non hanno la possibilità di affrontare con nessuno». «Non sono minori socializzati, non hanno altri punti di riferimento oltre il contesto in cui sono immersi». È la triste fotografia di questa generazioni di esclusi che mi consegnano assistenti sociali e mediatori culturali che operano nel Centro Orizzonti.
Da Ragusa a Latina sono 872 km. Due province, due distretti strategici dell’agroalimentare italiano, due mercati di riferimento: quello di Vittoria è il secondo per estensione e per volume di compravendite; quello di Fondi, il Mof – Centro Agroalimentare all’Ingrosso, il più grande e moderno centro italiano di concentrazione, condizionamento e smistamento di prodotti ortofrutticoli freschi. Per raccontare l’infanzia dei figli devi conoscere i loro genitori. Braccianti, sfruttati, sottopagati, schiavi del rinnovo del permesso di soggiorno, condizione che li porta ad accettare tutto pur di avere dal «padrone» i documenti necessari per restare regolari. Bambine e bambini costretti a rimanere da soli dalle prime ore del giorno, mentre mamma e papà lavorano nei campi. Altre e altri già adulti a nove-dieci anni, capaci di badare non solo a se stessi, ma anche ai fratelli e alle sorelle più piccole. Come racconta N., 10 anni, Latina: «Quando ho fame, cucino da solo. Mamma e papà si alzano alle 4 del mattino per andare a lavorare in una fabbrica fuori Pontinia. La sera rientrano non prima di mezzanotte. Io sto già dormendo. La domenica è bellissima: stiamo tutti insieme». In Provincia di Latina più della metà degli operai agricoli censiti/regolari (13.000 su un totale di 20.000), sono di origine straniera, in prevalenza indiana. Bella Farnia, Borgo Hermada, Borgo San Donato, Pontinia e Borgo Montenero, sono alcuni dei ghetti abitati da loro, contrade e frazioni che fanno da spalla a una costa, quella di Sabaudia, San Felice Circeo, Terracina, che ospita invece il turismo estivo popolare ma anche di lusso.
H.S. è arrivato in Italia nel 2005. Lo incontro grazie alla Caritas di Latina. Sua moglie lo ha raggiunto nel 2012 e suo figlio M. è nato nel 2014. «Ho sempre lavorato, prima in campagna, poi nelle serre. Infine ho trovato lavoro a Rocca Massima, facevo il custode per un B&B. Dieci anni fa ho iniziato a fare il panettiere. Mi ero abituato a lavorare di notte, anzi la luce del giorno mi dà fastidio. A marzo 2023 mi sono sentito male mentre impastavo, sono svenuto e mi hanno portato in ospedale. Facevo fatica a respirare. Non sentivo più i piedi. Avevo fortissimi dolori addominali. Sono stato ricoverato il 27 aprile 2023, mi hanno dimesso quindici giorni dopo, il 12 maggio». Epatite acuta, ipotiroidismo e sospetta neuropatia. H.S. non è più tornato a lavoro. Non ce la fa. Il suo «padrone» il primo mese gli ha dato qualche soldo per andare avanti, poca cosa, sono finiti subito e ora lui e sua moglie sono disperati. M. – suo figlio – è seduto al centro tra mamma e papà. Ha lo sguardo basso. Non interviene mai. Da quando papà si è ammalato ed è rimasto a casa senza stipendio, né uno straccio di sussidio o pensione di invalidità, vanno ogni giorno a mangiare alla mensa della Caritas. Il problema non è solo il cibo e l’affitto di casa che non stanno pagando. L’emergenza vera è il suo permesso di soggiorno in scadenza. E senza il rinnovo del contratto di papà tutta la famiglia è condannata. H.S quel rinnovo non lo avrà. Ora che si è ammalato non serve più. La Caritas ha fatto qualche ricerca e ha scoperto che in realtà per tutti questi anni è stato inquadrato come fioraio. Non ha mai percepito quindi l’indennità notturna da panettiere. Avrebbe potuto chiedere la disoccupazione, ma non sapeva nemmeno questo. Potrebbe avere diritto ad una pensione di invalidità ora che è gravemente malato, ma non ha presentato domanda perché i suoi documenti, contratti, buste paga, ce le ha sempre il padrone. Inoltre non ha una residenza. Eppure mi mostrano le foto della loro lunga vita in Italia. Gli scatti della nascita di M. all’ospedale di Latina, le foto con le maestre, alle gite scolastiche. Secondo i referenti della Caritas il bambino avrebbe bisogno anche di una valutazione neuropsichiatrica. Manifesta probabili problemi non diagnosticati. «M. sei preoccupato?», chiedo al ragazzo mentre il padre racconta i loro drammi. «Tanto» mi risponde sempre con lo sguardo basso. Ti piace la scuola? «Sì». Che vuoi fare da grande? «Guidare i treni». Raccontare questa provincia laziale è stato più complesso. Non c’è Save the Children a portare lo Stato, la Caritas fa quello che può insieme a qualche cooperativa sociale. È stato un viaggio più faticoso e lento, durato mesi in cui mettendo insieme i tasselli raccolti dalle interviste a psicologi, pediatri, mediatori culturali, sindacalisti, operatori Cas (Centri di Accoglienza Straordinaria per richiedenti protezione internazionale da cui proviene una parte della manodopera «temporanea» che si riversa nei campi), giornalisti, avvocati, insegnanti è emerso un quadro sconcertante. «Maestra, papà è morto perché lavorava troppo». Scuola primaria di Sabaudia. G. è un bimbo di nove anni. L’anno scorso ha perso il papà: ha avuto un infarto sul lavoro a 40 anni. La maestra racconta il caso visibilmente provata. Il corpo docenti dice di essere in ginocchio, la popolazione studentesca straniera cresce e non c’è un adeguato accompagnamento linguistico negli inserimenti. Le scuole sono chiuse il pomeriggio, pochissime ore di mediazione finanziate dalle istituzioni e solo fino alle medie. La mediazione alle superiori non esiste. Così, se hai 16 anni e i tuoi genitori vogliono che ti sposi per forza, smetti di studiare e nessuno può aiutarti, convocare le famiglie, fornirti sostegno adeguato. Darti una via d’uscita. Non ci sono servizi ricreativi pomeridiani, solo per qualche ora a settimana, nemmeno doposcuola gratuito. Parliamo di famiglie di lavoratori regolari, ma poveri che sorreggono un settore produttivo strategico, l’unico i cui introiti continuano a crescere dal Covid in poi.
C’è poi un altro spaccato che mi è stato consegnato dai docenti e di cui dobbiamo farci carico: i problemi legati alla gestione dei bambini bisognosi di sostegno. «Io seguo due bambine del Punjab, che oltre a non parlare l’italiano hanno anche dei problemi cognitivi – spiega un insegnante – ma non sono certificate, non sono mai state viste dall’Asl, dai medici. Le seguo perché abbiamo deciso con gli altri docenti che andavano aiutate comunque. E però oltre a loro due ho anche una bambina italiana. Quindi tre casi in una stessa classe». Perché non sono certificate? «È difficile fare diagnosi. I test sono solo in italiano. Poi i tempi sono lunghissimi, per tutti, italiani e indiani: per ottenere l’appuntamento per la valutazione cognitiva ci vuole un anno».
Rani ha quattro figli. Vive in una casa fatiscente in mezzo alla campagna dell’agro pontino insieme ad altre dieci persone. Ogni nucleo familiare ha una stanza. Quando arrivo i bambini giocano all’ingresso. Appena entri sulla destra c’è una cucina con le pareti piene di muffa. Non c’è riscaldamento, né acqua calda. La stanza di Rani e dei suoi figli è due metri per tre. Tutta la loro vita è lì dentro. Un letto a castello e un letto matrimoniale attaccato. Un cassettone e un frigorifero. Lavorava in una fungaia della zona, tra Sabaudia e Pontinia, un posto molto noto per casi di incidenti sul lavoro, ogni giorno iniziava alle 6 di mattina, finiva a mezzanotte. I funghi si raccolgono da sdraiati su impalcature, è un lavoro faticoso. Un giorno è caduta. L’impatto con il pavimento è stato violento. Si fa male agli organi genitali. Sviene, perde sangue. Il «padrone» ordina alle colleghe di soccorrerla, ma non chiama l’ambulanza. Alla fine, siccome Rani non si riprendeva, è un’altra lavoratrice, sempre indiana, che dal suo cellulare chiama il 118. La portano in ospedale. Dopo le cure però, firma ed esce. Non sporge denuncia. Il padrone l’aveva minacciata: non ti permettere, racconta che ti sei sentita male da sola. Mi dice tutto suo figlio più grande, 11 anni, italiano perfetto e aria da ometto di casa. «Quella notte mamma stava ancora molto male, perdeva sangue. Io le portavo dei panni bagnati per asciugarsi ma lei non si riprendeva. Così con il suo cellulare ho chiamato di nuovo l’ambulanza». C’è molto altro dolore negli occhi di questa donna e dei suoi bambini. Non solo la brutalità di un lavoro schiavista, dove i diritti sono sistematicamente calpestati, ma anche la violenza domestica subita dal marito. È sempre il primogenito a raccontarmi tutto. «Un giorno ho chiamato i carabinieri e l’ho denunciato. La picchiava, ci picchiava, voleva uccidere la mia sorellina più piccola». L’uomo oggi è in carcere. «Lei rappresenta il fallimento totale dei servizi sociali italiani – dice l’avvocata Silvia Calderoni che l’ha difesa -. Non è chiaro perché dopo un processo che ha certificato i maltrattamenti nessuno di loro sia stato preso in carico in modo adeguato. Per di più, in quanto vittima di violenza avrebbe avuto diritto all’assistenza della Regione Lazio, ma siccome non ha la residenza, in verità non ha diritto a niente, e questo impatta sulla sua vita e la rende il soggetto più sfruttabile del mondo sul piano lavorativo perché deve mantenere quattro figli, è una donna sola, vive in una casa fatiscente e continuerà a farsi sfruttare pur di badare a tutti». Lei e i suoi bambini, i nostri bambini, sono il simbolo del fallimento totale del sistema Italia. Ricordiamocelo in vista della Giornata Internazionale Contro la Tratta di Esseri Umani (30 luglio). Ricordiamocelo quando i leader di tutti i partiti invieranno – come ogni anno – messaggi di circostanza. La realtà è fatta di donne, uomini, bambine e bambini in carne e ossa e come li ho visti io sono visibili a tutti: istituzioni per prime che da anni tollerano abusi e violazioni sistematiche. La XIII edizione del rapporto «Piccoli Schiavi Invisibili» diffusa ieri e realizzata con Save The Children denuncia un sistema che di fatto viola ogni giorno il diritto alla salute e all’educazione di minori e adolescenti figli di braccianti che ho incontrato. Eppure restano sempre bambini, trovano il bello anche nell’inferno in cui vivono. Chiedo al primogenito di Rani cosa vuole fare da grande: «Il carabiniere». —