il Giornale, 27 luglio 2023
Intervista a Javier Sotomayor
Salamanca, Spagna, 27 luglio 1993. Lassù dove ha osato soltanto Javier Sotomayor, l’uomo che chiamavano Saltanubes, quello che volava oltre le nuvole e toccava il cielo con lo stile flop che ha fatto epoca e resta tuttora primatista mondiale dell’alto con 2.45 metri. Forse, lo rimarrà per sempre. Perché da quella vetta raggiunta trent’anni fa esatti dal campione cubano oggi 55enne, nessun altro saltatore ha saputo avvicinarsi. Anzi, ogni tentativo è puntualmente fallito. Tra il 2013 e il 2014 ci provò inutilmente l’ucraino Bondarenko. Nel 2016 Gimbo Tamberi si infortunò sul più bello, all’apice della sua parabola. Lo stesso Barshim nel 2018 si era procurato una lesione, mentre tentava il salto a 2.46 metri. È la maledizione di Icaro sul record mondiale dell’alto, uno dei più antichi tra quelli rimasti imbattuti nell’atletica moderna. «Sono ancora l’uomo che ha saltato di più al mondo con i propri piedi. Non avrei mai immaginato di invecchiare godendo di questo privilegio», dice il leggendario Soto dopo una sessione di allenamento con il figlio Jaxier di 15 anni che, ironia della sorte, a marzo ha vinto la gara dell’alto del Campionato spagnolo under 18 proprio a Salamanca. La saga continua
Javier, sono passati trent’anni da quel 2,45.
«Sono felice e orgoglioso del fatto che dopo 30 anni io possa ancora contare sul record del mondo di salto in alto. È da 35 anni che sono primatista mondiale visto che il mio primo record del mondo all’aperto risale all’8 settembre 1988, sempre a Salamanca».
Cosa successe quel giorno?
«Era un periodo della stagione in cui mi sentivo molto bene, tutto era perfetto. La settimana prima ero stato a Londra per gareggiare, ma si mise a piovere e quello mi impedì forse di saltare 2,45 già prima. Sono stato però fortunato che poi dovessi gareggiare a Salamanca».
Come festeggerà?
«Abbiamo organizzato tre feste a Cuba. Una il 24 luglio a Limonar, nella mia città, poi il 27 al mio bar 2.45 a l’Avana e infine a Varadero».
Ha chiamato il suo bar come il record?
«Sì, esatto e sembra portare fortuna questo nome visto che ancora nessuno riesce a batterlo! Qui è dove suono musica con il mio gruppo Salsamayor quando torno a Cuba».
Già, perché lei adesso si divide tra Cuba e la Spagna.
«Sì, abito a Guadalajara, vicino Madrid. Qui mi trovo bene. La Spagna è la mia seconda casa ed è anche il posto dove ho ottenuto i miei migliori risultati, fra cui anche l’oro olimpico di Barcellona nel 1992».
Salta anche suo figlio Jaxier. Consigli?
«Uno su tutti: la disciplina. Serve per allenarsi bene, forte. Nella mia carriera a fare la differenza sono stati disciplina, testa e allenamento».
Vedremo suo figlio ai Giochi Olimpici di Los Angeles 2028?
«È ancora troppo presto per dirlo. Le intenzioni sono quelle».
Lei avrebbe mai diviso a metà la medaglia d’oro di Tokyo come hanno fatto Tamberi e Barshim?
«Sì, se fosse toccato a me l’avrei fatto».
Ritiene che Tamberi possa ripetersi a Parigi?
«È molto difficile dirlo in questo momento, lui è un grande saltatore, ci sono anche altri saltatori di quel livello, Ma se mantiene il suo livello da qui a Parigi come sta facendo, è chiaro che può ripetersi. Ogni stagione si cambia. A me è successo: nel 1996 ho vinto tutte le gare e mi sono infortunato prima di Atlanta dove poi non ho vinto la medaglia. Ho conosciuto Gianmarco a Rio che era in stampelle».
I guai fisici di Jacobs.
«So come si sente, ma sono cose che succedono. Gli auguro una pronta guarigione, ma soprattutto tanta fede e pazienza che tutto andrà bene. Spero di vederlo a Budapest».
Questo è un anno po’ triste per la morte di Dick Fosbury. Chi è stato per lei?
«Per me, per tutti noi atleti che siamo arrivati dopo, è stato un atleta formidabile che con il suo stile rivoluzionario ha cambiato uno sport. È grazie a lui se sono riuscito a saltare 2,45. Con lo stile ventrale, sarebbe stato impossibile farlo».
Nel 1999 fu al centro di un controverso caso di sospetto doping. Quella vicenda la ferì?
«Sì perché ero stato sottoposto 18 volte a controlli, molti dei quali a sorpresa. Una volta sono venuti a testarmi perfino quando ero in vacanza con la famiglia: quello è stato il colmo».
Anche Maradona pagò con una squalifica. È vero che eravate amici?
«Assolutamente sì. Quando è morto, ho pianto. L’ho conosciuto nel 1999 a Cuba, era là per disintossicarsi. È nata un’amicizia tra di noi tanto è vero che mi ha invitato alla sua partita di addio al calcio. Ogni volta che veniva nell’isola ci vedevamo».