La Stampa, 26 luglio 2023
Intervista a Tito Boeri
Tito Boeri si batte da anni «per un salario minimo» perché esiste «una quota consistente di lavoratori che ha stipendi molto bassi se non addirittura da fame».
Secondo l’economista e docente dell’Università Bocconi, ci sono datori di lavoro che pagano «donne, giovani e migranti ben al di sotto del valore di ciò che producono e la contrattazione collettiva non è in grado di affrontare questi problemi». Boeri chiama in causa anche Confindustria, che «non può girarsi dall’altra parte». Il tema, però, dice l’ex presidente dell’Inps, è l’entità del salario minimo orario: i 9 euro l’ora proposti dalle opposizioni in Parlamento potrebbero essere una base troppo alta.
Pensa che un salario di 9 euro l’ora sia troppo elevato?
«È sbagliato a questo stadio proporre dei livelli del salario minimo. Non abbiamo sufficienti informazioni e non è serio sparare numeri a casaccio solo per guadagnarsi un po’ di popolarità. Saggio inoltre partire bassi e poi gradualmente aumentare il salario minimo monitorando cosa succede all’occupazione. È quanto fatto in Germania e nel Regno Unito che si sono anche basati su analisi approfondite del mercato del lavoro. Nel grande svantaggio di non avere sin qui introdotto il salario minimo abbiamo il vantaggio di poter imparare dall’esperienza degli altri paesi. Si istituisca anche da noi una commissione bassi salari che formuli proposte al Parlamento».
Perché deve essere una commissione di tecnici e non la politica a indicare il livello del salario minimo?
«La scelta è complessa perché se si indica un livello troppo basso il salario minimo non serve a niente, se il livello è troppo alto rischia di distruggere i posti di lavoro proprio tra quelle fasce deboli e vulnerabili che si vorrebbe invece aiutare. Per scegliere un livello appropriato occorre mettere insieme le diverse fonti disponibili: i dati dell’Inps, dell’Istat, dell’Agenzia delle entrate e gli studi sul lavoro sommerso».
Eppure nove euro lordi non sembrano tanti...
«Per una famiglia che ha un addetto che si occupa della cura di familiari non autosufficienti e che lo utilizza 48 ore alla settimana, come spesso accade, con 9 euro l’ora il costo di un lavoratore è di oltre 1.700 euro al mese, a cui vanno aggiunti contributi, ferie, tredicesima e Tfr. Quante famiglie italiane sono in grado di pagare queste cifre? Quando faccio questo esempio ai demagoghi dei 9 euro all’ora mi rispondono che ci sarà una deroga per le badanti. Ma un salario minimo si deve applicare a tutti i lavoratori senza eccezioni. E il lavoro delle badanti è fra i più onerosi e ha un grande valore per le famiglie. Inaccettabile trattarle peggio di tutti gli altri lavoratori».
Il centrodestra ha reagito all’ipotesi di salario minimo parlando di Unione sovietica e assistenzialismo.
«Il ministro Tajani che considera il salario minimo uno strumento dell’Unione sovietica per pagare tutti allo stesso modo non ha capito che si sta parlando di un minimo, non di un massimo. Regno Unito e Stati Uniti hanno il salario minimo e hanno fortissime disuguaglianze retributive. Il salario minimo serve a impedire che ci siano stipendi da fame e condizioni di sfruttamento. Anche il ministro Musumeci che dice di essere contrario all’assistenzialismo non sembra avere ben chiaro cos’è un salario minimo: non è un trasferimento che viene dato dallo Stato a persone che non lavorano, ma è un compenso minimo pagato dai datori di lavoro a chi lavora. Forse Musumeci ha confuso il salario minimo con il reddito minimo».
La Cgil ha sposato la causa del salario minimo dopo qualche titubanza iniziale, gli altri sindacati sembrano freddi, cosa ne pensa?
«È in atto, con molto ritardo, un processo di maturazione nel sindacato. Mi ricordo di aver parlato di salario minimo all’inizio del millennio, 23 anni fa, e di essere stato lapidato dalle organizzazioni sindacali. Sono contento che fette importanti abbiano cambiato idea a riguardo».
Carlo Bonomi dice che è un problema che non riguarda Confindustria. È vero?
«Sicuramente è un problema che riguarda soprattutto le piccole imprese sempre meno rappresentate da Confindustria. Ma anche per le grandi, per favore, togliamo il velo dell’ipocrisia: molte grandi imprese ricorrono ad aziende esterne, di cui sono spesso gli unici committenti, che pagano i propri lavoratori 5 euro l’ora. Sono di fatto loro dipendenti e hanno stipendi da fame. Bonomi non può voltarsi dall’altra parte e ignorare il problema».
Nel luglio di trent’anni fa l’allora presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi firmava il patto del ‘93 sulla concertazione con le parti sociali. Quel protocollo fissava le regole per la contrattazione e spezzava definitivamente la spirale prezzi-salari. Gli stipendi degli italiani, però, in questi trent’anni sono rimasti fermi, cosa non ha funzionato?
«Il patto del ‘93 ha avuto la grandissima funzione storica di portare l’Italia nell’euro e di raggiungere obiettivi di riduzione dell’inflazione, che è sempre qualcosa che fa male alle fasce più deboli e distrugge il tessuto sociale di un paese. Credo che oggi, di fronte alla recrudescenza dell’inflazione, sarebbe molto utile trovare un accordo di quel tipo per gestire l’inflazione. Noi abbiamo avuto un forte incremento del costo della vita dall’agosto del 2021 e sono le fasce più deboli della popolazione che ne hanno risentito di più».
Ma perché gli stipendi sono fermi al palo?
«È un fenomeno che viene da lontano e si deve al fatto che l’economia non è cresciuta e che la produttività del lavoro è rimasta molto bassa. Il patto del ‘93 prevedeva due livelli di contrattazione: la contrattazione centralizzata fatta a livello nazionale e quella decentrata al livello delle imprese. Mentre la contrattazione centralizzata copre un numero sempre più basso di lavoratori, quella decentrata non è mai decollata. Su questo credo che il sindacato dovrebbe fare una profonda riflessione. Certamente sarebbe molto importante varare delle norme sulla rappresentanza che permettano di incentivare un maggiore ricorso alla contrattazione collettiva».
Il governo Meloni punta sul taglio del cuneo per rafforzare i salari, tuttavia nella riforma fiscale all’esame del Parlamento si discute soprattutto di condoni, lei come giudica questo dibattito?
«I lavoratori che operano nella no tax area non hanno alcun beneficio dalla riduzione delle tasse. Bene abbassare il cuneo fiscale ma questo non risolve il problema dei salari da fame. Molto pericoloso continuare a strizzare gli occhi agli evasori e attaccare lancia in resta l’amministrazione fiscale. Bene tra l’altro che Meloni e Salvini si ricordino che il recupero dell’evasione è uno degli obiettivi qualificanti del Pnrr che dicono di voler onorare».