la Repubblica, 26 luglio 2023
Roma-Foggia sul treno della discordia. Dopo il racconto di Alain Elkann sui “giovani lanzichenecchi” che ha suscitato polemiche e risposte, un altro scrittore ha ripercorso la stessa tratta, descrivendo la realtà opposta
Non c’è da raccontare niente. Quindi si può raccontare tutto. Non esiste déjà vu su un treno che da Roma parte per Foggia, se – come è accaduto ad Alain Elkann (Repubblica del 24 luglio) – si può scoprire che fa tappa a Caserta e a Benevento, o che nella vecchia “prima classe” (la nominazione è cangiante: business, executive…) è possibile incontrare adolescenti rumorosi e poco deferenti. Niente, anzi nessuno è mai davvero già visto: basterebbe rovesciare astrattamente l’articolo di Elkann e immaginarlo scritto da un “lanzichenecco”. Quel «signore con i capelli bianchi, una sorta di marziano che veniva da un altro mondo» – così Elkann si autoritrae – proprio perché non déjà vu da quei passeggeri potrebbe aver suscitato in loro qualche curiosità. Chi può dirlo? A Elkann sarebbe forse bastato un minimo slancio in più e un filo di insofferenza in meno; e, da esperto intervistatore (da Moravia a Montanelli a una ragazzina di undici anni), avrebbe trovato materiale interessante. Scavare col pensiero in quel muro apparentemente invalicabile tra il suo abito «stazzonato» di lino blu e i loro cappelli con visiera: chi sono? Che cosa stanno pensando? Che cosa desiderano? Oltre quello che stanno dicendo a voce alta. «Tutte le persone sono simpatiche quando si riescono a capire»: non è Proust, l’autore che Elkann tentava di leggere fra gli schiamazzi. È Harper Lee.
Per quanto mi riguarda, rifacendo la tratta (all’andata su un Frecciargento Trenitalia, al ritorno su un Italo), non ho portato libri: solo una pagina di Tondelli, che con Elkann e altri fondò una rivista. A bordo di un regionale all’inizio degli anni Ottanta, «accaldato, sudato e appiccicoso», lo scrittore intendeva farsi tramite delle «storie di gente comune»: «Gente che fa, gente che produce, gente sottoccupata, gente incantata, gente improduttiva, gente selvatica», «gente che costituirebbe a prima vista una massa anonima ma che, se indagata con solo un poco di attenzione, riserverà molte sorprese».
Confermo: nella prima mescolatissima classe del Frecciargento del mattino per Foggia, trovo la turista con cappello a falda larga e trovo la ragazza che cerca di resistere all’aria condizionata sfilando dalla grossa valigia un accappatoio. Non c’è un medico presente a bordo – un messaggio accorato lo invita a presentarsi nella carrozza 6. Penso: nessuno che chieda mai di uno scrittore! E sì che potrebbe, volendo, trovare le parole per descrivere il curioso rapporto tra un ragazzino saputello e sua nonna. Lui quasi la ossessiona non con le domande, ma con le sue competenze: sulla misura dei bagagli, sulle lattine d’acqua che ultimamente vengono distribuite (in prima classe!), su un panorama ripetitivo («qua ci sono solo campagne, zone industriali, binari»), sui tratti in cui va via la linea dei cellulari. Il mio dirimpettaio, le cuffie wireless come noccioline bianche nelle orecchie, si affanna a riprendere contatto con un certo Gennaro, e ripetendone familiarmente il nome – Genni, Genni – sente abbaiare un cane accucciato sotto un sedile. Al che la proprietaria spiega che anche il cane si chiama (suppongo io) Jenny. C’è il maniaco dell’igiene – disinfetta con l’Amuchina spray i tavolinetti – e c’è un drappello di “lanzichenecche” belle e loquaci, le unghie finte, la voce un pelo alta, le risate un po’ esagerate. D’altra parte, qualche sopracciglio si alza, qualcuno sbuffa: la verità è che tutti possiamo essere il lanzichenecco vicino di posto di qualcun altro. A questo proposito, urge segnalare che fra noti critici e critiche del racconto di Elkann – rilanciato, rimaneggiato, reso virale – vi è chi sbraiterebbe al primo segnale di disturbo. In modo così sgradevole e scomposto e incapace di compromesso che la mansueta insofferenza di Elkann, al confronto, è balsamica. Percorro le carrozze in cerca di qualche abito di lino, lo trovo. Trovo piedi piazzati sui sedili, accese partite a carte, in cosiddetta seconda classe, e trovo copie di libri, che non avevo trovato in prima. E non c’era Proust, ma c’era un Roth e un Bret Easton Ellis: sul tavolino di un ragazzo con indosso la t-shirt arancione di una qualche truppa sportiva.
Gli occhi al cielo per il canonico ritardo, sia all’andata che al ritorno. Una voce che chiede se Vittorio ha mangiato. «I Bucaneve mi ricordano quando ero bambina!». Una signora che piange perché le porte si sono chiuse e il marito è rimasto giù. «’Nu guaio!». La vicina di posto la aiuta a cercare gli orari, a calmarsi. Eccolo il meraviglioso condominio ferroviario in cui le distanze di classe si sfarinano; talvolta perfino i pregiudizi. L’elzevirista accigliato può incontrare il suo opposto, faticando ad accettarlo (su questo giornale, molti anni fa, a un Citati che inaspettatamente elogiava i “borgatari” che mangiano il gelato in centro, rispondeva un infastidito Malerba). L’incontro non è facile ma la curiosità è vitale; e ogni viaggio, ogni viaggetto è un’occasione per polverizzare l’abitudine. E, come invita a fare una scrittrice nell’ultimo numero di Robinson – quello che Elkann ha sfoderato accanto ai giovani passeggeri – per diventare «estranei a sé stessi». Provando a varcare, con le frontiere geografiche, quelle mentali. Le più spesse. In un verso o nell’altro, le più difficili.