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 2023  luglio 26 Mercoledì calendario

Storia del pesto

«Genova per noi è un’idea come un’altra», canta Paolo Conte. Ma per i genovesi è un’idea fissa. Un punto fermo, immutabile come un articolo di fede. Un porto sicuro contro le onde mutevoli degli eventi e dei cambiamenti. Sarà che sono stati una grande repubblica marinara. Sarà che l’acqua li assedia e li spinge sotto i monti, senza vie d’uscita al di fuori di «quel mare che si muove anche di notte e non sta fermo, mai». Certo è che gli spiriti elementari dell’identità zeneize sono fatti dimâ e di sâ,di mare e di sale. L’uno dà e l’altro conserva.
È vero per i cibi ed è vero per i caratteri, i tic, gli sfizi, i vizi. E i witz. Per il mormorio della polis, che qui prende l’andamento ondivago di una cantilena, di un gregoriano da portuali occitanici. In fondo il proverbiale mugugno è il basso continuo della genovesità e ha la forma dell’acqua, l’eco andante e ritornante della risacca. Questa città verticale e vertiginosa, orgogliosa e maestosa, arrampicata da sempre su sé stessa è abitata da gente piccola e magrolina. Scattante, saettante, pungente. Essenziale come la sua cucina. Che è un’espressione quintessenziale del Mediterraneo, dei suoi sentori, dei suoi amori. E dei suoi umori. Come lamacaia, la variante ligure della melanconia, una bonaccia dell’anima che non fa impazzire ma languire. E richiama demoni meridiani che addensano sul golfo nuvole cariche di lontananze. «Macaia, scimmia di luce e di follia, foschia, pesci, Africa, sonno, nausea, fantasia». Cosmopoliti per professione e identitari per vocazione, i genovesi sono andati ovunque, da Gerusalemme al Bosforo, da Maiorca a Buenos Aires, dove hanno fondato un quartiere simbolo come la Boca. Lì è nato il tango. Che poteva nascere solo da un’esaltazione erotica e metrica della macaia. Ma la loro tana del cuore sta fra via del Campo e Boccadasse, piazza Banchi e via Pré, tra i vicoli del Porto antico e i carruggi che si precipitano ansanti verso la riva, come vecchi malmostosi. Senza la Superba, ladieta mediterranea moderna non esisterebbe. E non solo perché la gastronomia locale è un trionfo di olio, grano, ceci, vino ed erbe aromatiche. Ma anche per il fatto, dirimente, che se Cristoforo Colombo, il più illustre dei genovesi, non avesse scoperto le Americhe, forse saremmo ancora alla monotonia della puls fabata, la polenta di fave dei romani. O, peggio, ai pasticci rinascimentali, a quelle ricette di corte che amalgamavano in un sapore cupo come un crogiolo alchemico selvaggina, miele, spezie, formaggi, mosto cotto. Invece l’Ammiraglio del Mare Oceano ha aperto la strada a una miriade di prodotti che hanno fatto alla cucina europea lo stesso effetto del bacio del principe alla bella addormentata. A cominciare dal pomodoro, senza il quale gli spaghetti sarebbero tristemente single. Per finire con i peperoni, che il grande navigatore scopre nel suo secondo viaggio. Anche se lo chiama aji,usando il termine antillano. I miei uomini, annota nel suo diario, «vi trovarono molto aji che gli indigeni usano come fossero pepe e che vantano maggiori pregi del nostro, perché possono considerarsi vera e propria pietanza per chi riesca a sopportarne il sapore assai forte. Niuno là mangia senza il condimento di questo aroma». La stessa cosa vale per patate, fagioli, peperoncino. E mais. Nemmeno i polentoni esisterebbero senza Colombo. Anche se, a onor del vero, la cucina della sua città non ha cambiato di molto le abitudini e di pomodoro non fa grande uso. Ma in compenso è un combinato disposto di bontà e di sostenibilità. Perché per trasfigurare l’umile farina di ceci in una fragrante e sfrigolante fainà,ovvero farinata, ci vuole del genio. E lo stesso vale per la focaccia. In teoria è alla portata di chiunque, in pratica lafügassa è genovese o non è. Quella che si mangia altrove è una pallida e spesso velleitaria imitazione. E anche il pesce che non è un’esclusiva locale, prende un inconfondibile gusto ligustico. Le anciue e igianchettiche si trovano nelle friggitorie di Caricamento e della Raibetta, tra le volte fumose di Vico delle Compere e lo scuro degli angiporti, dove s’insinua come un sentore di nostalgia il vento salato delle creuze de ma,hanno il gusto ineguagliabile delle cose sottratte al tempo. E se ai pescetti si aggiungono le trippe e i carciofi, il latte brusco, lepanisse, ifrisceü,i c uculli, ilgattafin, tutti rigorosamente fritti, lostreet food ligure diventa un esplicito Vaffa al salutismo imperante. Che oggi liquida tradizioni alimentari vecchie di secoli per sostituirle con cibi senza sapore, senza storia, senza memoria. Un puritanesimo del gusto che il genovesissimo ragionier Fantozzi definirebbe una “cagata pazzesca”.
Ma la vocazione mediterranea di questa città ha la sua quintessenza nel pesto. Basilico di Prà, extravergine, pinoli, pecorino, parmigiano e aglio. Un grande mortaio di marmo e tanto olio di gomito. La passione di questo popolo per le erbe non ha limiti. Il pesto, infatti, viene ulteriormente “verdurizzato” aggiungendo alle immancabili trenette i fagiolini e le patate. E i “deliri vegetabili, odorosi” per dirla con i poeti barocchi, si completano con le sontuose torte di verdura, pasqualine e non solo, dove qualche cucchiaio di priscinsêua,una cagliata dal sapore acidulo,e un soffio di vento tra le sfoglie, danno vita a delle autentiche cattedrali gastronomiche che guardano dall’alto in basso le spocchiose quiches transalpine. E per santificare le feste, quando proprio la carne non può mancare, si celebra il rito della cima, o meglio a çimma, come si chiama qui. Una tasca di vitello ripiena di carne, trippa, piselli, parmigiano, animelle, cervello, uova e molto altro. La preparazione è delicata, lunga e difficile e per la sua riuscita tradizionalmente si recita un esorcismo dove si mescolano gastronomia e magia, maestria e magheria, arte dei fornelli e sortilegi sacerdotali inventati da gente abituata a misurarsi con gli elementi e misurare gli alimenti. Il rito vuole che prima di iniziare la cottura si metta una scopa accanto al tegame per tenere le streghe impegnate a contare i fili e impedire loro di sabotare la ricetta. A quel punto si accende il fuoco, parte la litania e la cucina diventa poesia. «Cielo sereno terra scura, carne tenera non diventare nera, non ritornare dura e nel nome di Maria tutti i diavoli da questa pentola andatevene via». Parole e musica di Fabrizio De André.