la Repubblica, 26 luglio 2023
Il potere del salario minimo
Il tema del salario minimo è fin qui la carta migliore che l’opposizione è riuscita a calare sul tavolo. Suscita discussioni tra gli economisti, e alcuni dubitano che il nostro sistema possa reggerlo senza conseguenze tali da richiedere una serie di riforme contestuali, ma sul piano politico funziona.
Ha messo il centrodestra sulla difensiva, forse per la prima volta dall’inizio della legislatura. Non a caso i sondaggi dicono che anche l’elettorato di Giorgia Meloni è in larga misura favorevole, il che suggerisce a tutti di affrontare la questione.
L’argomento secondo cui «il centrosinistra ha governato per anni e non si è mai curato di approvare il salario minimo» contiene una sua verità e allude alla storica contrarietà dei sindacati, Cgil in testa. Ma riguarda solo la polemica retrospettiva: oggi che anche il sindacato ha cambiato posizione (tranne la Cisl) è più utile guardare al futuro prossimo, quando si tratterà di decidere. Ci sono state alcune aperture della premier, consapevole che la linea del “no” è ormai insostenibile, anche perché odiosa sul piano sociale. Tuttavia il sentiero per arrivare al risultato non è lineare. La presidente del Consiglio non vuole apparire semplicemente una che si piega all’opposizione. In termini politici è comprensibile. Significa che metterà a punto una controproposta in grado di accogliere le perplessità degli economisti e di un certo mondo politico e su questo accetterà probabilmente una mediazione.
Peraltro nemmeno tale esito è scontato: in Parlamento si svolge un gioco di emendamenti il cui scopo è far slittare il provvedimento a dopo l’estate, quando sarà forse più facile individuare un punto d’intesa tra maggioranza e opposizione.
Ma il centrosinistra e i 5S hanno in pugno la loro bandiera e non intendono rinunciarvi.
Anche questo è comprensibile. Il punto è: cosa si vuole veramente? È una domanda a cui tutti sono chiamati a dare una risposta.
La destra vuole affossare il salario minimo e confermare lostatus quo ? Ormai non è più possibile, come si rendono conto a Palazzo Chigi. La sinistra (con i 5S) vuole realmente ottenere la legge oppure sta mettendo in atto una manovra politica per dimostrare che la destra non ha sensibilità sociale? In effetti fare la campagna per le elezioni europee sventolando il vessillo del salario minimo equivale a una doppia opzione positiva. Sia nell’eventualità che la legge sia fatta entro settembre-ottobre. Sia nel caso in cui tutto dovesse andare a monte per una responsabilità attribuibile alla controparte.
Con una punta di cinismo si potrebbe dire che in questo secondo caso l’impatto sulla campagna elettorale sarebbe persino più significativo.
Resta il dubbio se a lungo andare l’approccio intransigente e ideologico, del genere “prendere o lasciare”, sia il più fruttuoso. In questi giorni si registra un certo dinamismo da parte di Carlo Calenda, desideroso di trovare una soluzione in grado di soddisfare uno schieramento largo e trasversale in Parlamento. In effetti il pragmatismo sembra l’unico modo ragionevole per sciogliere il rebus del salario minimo. La battaglia di principio serve per rivolgersi alla platea dei sostenitori, ma una norma legislativa deve tener conto dei dettagli. In questo caso le differenze che esistono tra le aree produttive del Paese e quindi tra le imprese, la necessità di non incrementare l’illegalità nelle zone più depresse (il “nero” sottratto al fisco), l’attenzione a non gravare sulle casse già esauste dello Stato (ma qui esistono diverse opinioni). Si capisce che il tema è cruciale e può essere l’occasione per un confronto non banale tra maggioranza e opposizione. Ma può diventare facilmente un’occasione persa. E non sarebbe la prima volta.