Corriere della Sera, 26 luglio 2023
Intervista a Marco D’Amore
In televisione lo abbiamo visto incarnare una delle trasfigurazioni più profonde del male, quel Ciro l’Immortale che percorre come una saetta lo spazio di «Gomorra». Eppure Marco D’Amore ci tiene a precisare: «Non so se Ciro sia la perfetta incarnazione del male. Quando gli ho dato corpo e voce ho fatto un percorso bizzarro, “a togliere”: sono partito dal fatto che quello è un mondo di violenza, di istinti spietati e vendette indicibili. Ma poi ho cercato di sfoltire e far risaltare l’umanità di questo personaggio. Dal conflitto tra il criminale e l’uomo è nato Ciro».
D’Amore, casertano di 42 anni, è il presidente della giuria di un concorso che al Magna Graecia Film Festival premierà opere prime e seconde di lungometraggi italiani, con proiezioni all’Arena del Porto. «Ho sempre detto – racconta al Corriere – che mai e poi mai avrei fatto parte di una giuria. Ma se me lo chiede l’amico Gianvito Casadonte, come faccio a rifiutare?».
Perché non ama valutare le opere degli altri?
«Perché sono e vorrei rimanere prima di tutto uno spettatore. Non solo al cinema, ma anche nella vita. Sono uno che ha attraversato momenti anche difficili, so quanto sia importante imparare, più che salire in cattedra».
Che adolescenza è stata la sua?
«Fortunata. Una famiglia unita, a sedici anni misi in piedi una specie di compagnia teatrale. Ero innamorato del teatro, volevo fare quello, anche se i miei genitori, come è comprensibile, avevano altri progetti per me. L’incontro che segnò la svolta fu quello con Andrea Renzi: eravamo in tanti ad ascoltarlo, ma io ebbi la sensazione che aveva notato me. Infatti, qualche giorno dopo mi chiamò».
E poi Toni Servillo, un sodalizio sul palcoscenico e nella vita che compie venticinque anni.
«Questo incontro risale all’ultimo anno di liceo. Lo ricordo benissimo, perché due attori della sua compagnia, Enrico Ianniello e Tony Laudadio, fecero rinascere il Teatro Garibaldi di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta. La compagnia di Servillo stava provando la riduzione teatrale del Pinocchio di Collodi, io seguivo i corsi di un laboratorio. Feci un provino e fu la svolta vera perché nell’arco di una notte mi ritrovai a lavorare in una compagnia con attori di primissimo ordine, due anni tournée in giro per l’Italia. Ovviamente lasciai l’università alla quale mi ero appena iscritto. Ma sentivo che la mia strada era quella».
Che cosa rappresenta oggi Servillo per lei?
«Un maestro inconsapevole, come devono essere i veri maestri. Toni non cerca di insegnarti niente, ma tu impari molto da lui proprio per questo suo modo di trasmetterti le cose. Sto girando Caracas, il mio nuovo film, e Toni è il protagonista. Vedere me dietro la macchina da presa e lui davanti è come chiudere un cerchio che mi ha dato molto».
Tanto teatro, poi il cinema e il successo di «Gomorra». È stata dura ottenerlo?
«Ricordo bene gli inizi difficoltosi, i pochi soldi per pagarmi la scuola “Paolo Grassi” di Milano. Una vita come tanti ragazzi che si allontanano dalla famiglia e che per anni si trovano davanti teatri semivuoti, di certo non sono stato il solo. Però è stata una lezione di vita. Oggi capisco che nulla è scontato, che servono determinazione e coerenza con sé stessi. Forse è anche per questo che negli ultimi anni ho voluto raccontare Napoli nei miei film. È una città che è molto più colta e intelligente che bella, è una città che non si può raccontare con un solo linguaggio. È per questo che il film come Napoli Magica ho scelto tanti e svariati linguaggi. Dallo storico all’esoterico al popolare. Napoli è una città di conflitti e lacerazioni».
Facciamo uno pseudo questionario di Proust: io le dico un nome e lei mi risponde quello che le viene in mente all’impronta. Va bene?
«Proviamo».
Salvatore Esposito (alias Genni Savastano in «Gomorra», ndr.)
«L’amicizia fraterna. Fin dai nostri primi incontri ci siamo trovati perfettamente e ancora oggi siamo molto legati».
Matteo Garrone.
«Un regista che ti fa esplodere dentro l’amore per le cose e per le persone».
Maradona.
«Un uomo che ha il superpotere di far sentire bambini gli adulti. Anche oggi che non c’è più».
Pulcinella.
«Che bella intuizione. Uno dei personaggi più profondi, complessi e ramificati dell’intera cultura napoletana. L’ho messo anche in un mio film».