Avvenire, 25 luglio 2023
Due fascisti in carriera anche dopo
l 26 luglio del 1943 Eugenio Coselschi espone al balcone la bandiera dei Savoia e si mette a disposizione del nuovo governo, poi viene arrestato dai repubblichini, ma subito liberato. Ancora meglio va a Giuseppe Pièche che pochi mesi dopo Badoglio nominerà comandante generale dell’arma dei Carabinieri. Coselschi, promotore dell’Internazionale fascista, e Pièche, membro del servizio segreto militare del generale Mario Roatta – sono nomi poco noti. Ma ben rappresentano quel sottobosco di fascisti che dopo l’arresto del Duce, come diremmo oggi “si riciclano”. Due figure che, secondo lo storico Eric Gobetti, autore de I carnefici del Duce (Laterza, pagine 184, euro 18,00) possono essere considerate paradigmatiche della cosiddetta “continuità dello Stato”.
«Entrambi questi personaggi, così rilevanti nelle trame spregiudicate del fascismo, hanno infatti continuato la propria attività politica e professionale, con logiche e mentalità immutate, nei primi decenni della Repubblica». A Coselschi viene additrittura attribuita un’onorificenza nel 1958 per meriti nell’amicizia tra i popoli e la diffusione della cultura nel mondo. Coselschi e Pièche erano stati attivi in Jugoslavia, uno dei teatri dove la violenza dell’esercito fascista si dispiegò con maggiore crudeltà.
Ma furono figure «troppo in ombra e indirettamente responsabili per essere perseguite nel dopoguerra». Il focus del libro di Gobetti, infatti, non è solo la mancata epurazione, ma soprattutto la sostanziale impunità di cui hanno goduto gli autori di efferati massacri dall’Africa coloniale ai Balcani. Costati quasi un milione di morti, secondo i calcoli che è possibile fare. A farla franca furono anche pezzi grossi come Rodolfo Graziani,il già citato Roatta (messo sì sotto processo, ma rifugiatosi nella Spagna franchista), Alessandro Pirzio Biroli, attivo nella represssione dei “ribelli” in Etiopia e Montenegro, e molti altri. Gobetti (due anni fa al centro di polemiche per un libro sulle foibe) accompagna alla narrazione della “gesta” di questi criminali di guerra il ricordo di profili di oppositori come il console a Mostar, Renato Giardini, che denunciò la situazione nei suoi resoconti, o i partigiani Ilio Barontini e Umberto Graziani (solo omonimo). Ad essi, nota amaro Gobetti, non è dedicato alcun monumento, come invece a Rodolfo Graziani nella natia Affile. C’è, infine, anche chi, come il sacerdote bergamasco Pietro Brignoli, pur non mettendo in discussione la guerra, da cappellano. prima in Etiopia, poi in Slovenia, non perde la sua umanità e rigetta la violenza gratuita, lasciando un prezioso diario su quelle vicende. Lo scopo del libro, dichiara l’autore, non è quello di «rifare oggi a distanza di 80 anni i processi mai celebrati all’epoca», quanto piuttosto «quello di interrogarsi sulle ragioni, sulla mentalità, sui condizionamenti sociali che hanno spinto tanti (troppi) italiani a prendere parte a quei crimini». Per arrivare a fare i conti con il passato, con l’”elefante nella stanza” (espressione che Gobetti mutua dalla psicologia) che ci siamo rifiutati di vedere. Senza dare giudizi sugli uomini, bensì sulle idee che li mossero, perché non si ripetano