Corriere della Sera, 25 luglio 2023
Cronaca della fine del fascismo (4)
Quella telefonata è il segnale che il piano d’emergenza è infine scattato. Preparato dallo Stato Maggiore su input tacito del Quirinale, aggiornato nei vertici tra il generale Ambrosio e il Maresciallo Badoglio davanti all’ombra silente del Duca d’Acquarone, era da settimane “in sonno”, in attesa della decisione del Re. Poi le cose si erano improvvisamente messe a correre, ognuna per sé, col Ministro della Real Casa che controllava le mosse dei congiurati fascisti, incoraggiandole, e vigilava sulle opzioni dei militari interventisti, indirizzandole. Tutti parlavano troppo. A giugno addirittura Badoglio aveva dovuto fermare le congratulazioni degli amici che lo consideravano già successore di Mussolini. E quegli auguri frettolosi restavano nei registri delle intercettazioni di Stato. Una telefonata raggiunge il Maresciallo: «Da piazza San Pietro mi dicono che il lieto evento è prossimo».
«Chi si sogna di dire una cosa del genere? Posso smentirlo nella maniera più categorica, anche perché lassù aspettano che la cosa maturi spontaneamente. Io, da parte mia, rimango tranquillo e vado a fare la mia solita passeggiata mattutina».
«Però sarebbe bene…». «Io sono un soldato e basta». Nonostante tutte le cautele, finisce nelle registrazioni anche la notizia dell’ultimo incontro riservatissimo tra Vittorio Emanuele III e Badoglio, il 16 luglio. La dà Bonomi il giorno dopo, mentre da casa di una baronessa telefona a un amico avvocato, che vuole sapere: «Nulla di nuovo?». «Finora nulla». «E il piemontese?». «È stato ieri a parlare con il vecchio. Io l’ho visto subito dopo».
«E che cosa gli ha detto?». «Il vecchio gli ha detto che bisogna finirla, aspetta il momento giusto, tanto che gli ha domandato se era disposto ad accettare la successione con un governo di tecnici».
«Di questo c’è tempo per parlare». «Io sono dello stesso avviso: l’importante è che si finisca».
Cos’era successo? I piani inclinati delle due congiure si erano infine incrociati, e il Quirinale aveva visto improvvisamente spalancarsi la vertigine del campo libero, vent’anni dopo. La guerra era insostenibile, la sconfitta certa, l’invasione in atto, l’alleanza ormai intollerabile. Il Duce, arenato, sembrava attendere che gli eventi precipitassero. Anche la monarchia era fiaccata dalla complicità con la dittatura, ma qualcosa di metafisico reggeva almeno nella tradizione popolare, e lì forse sopravviveva l’ultima riserva di potere legittimo per salvare il Paese. Ora c’era anche lo strumento costituzionale offerto al monarca, con la sfiducia votata in Gran Consiglio. Il Re raccoglieva ormai tutte le attese, ma anche il dubbio finale, supremo: la sua persona sarà all’altezza dell’occasione che la Storia gli offre? Quando torna da Palazzo Venezia alle 3 del mattino, Grandi trova un messaggio del Duca d’Acquarone, che chiede di vederlo dovunque e a qualunque ora dopo il Gran Consiglio. Si incontrano alle 4, a casa del deputato Mario Zamboni. Il Re vuole sapere cos’è successo nella lunga notte fascista. Grandi racconta: crollato Mussolini, spiega, crollerà con lui il regime totalitario. Ma non c’è un minuto da perdere, colpi di coda sono possibili, con i tedeschi pronti. Il Duca va a riferire a villa Savoia, Grandi non risponde a tre chiamate del Duce. A mezzogiorno il responso: il Re ha deciso.
Il precipizio aperto dal Gran Consiglio in realtà ha sconvolto il piano titubante che il sovrano aveva approvato. Si era infatti stabilito di agire il 26 luglio, lunedì, giorno tradizionale d’udienza del Re col Capo del governo, in una routine che consentiva di preparare l’arresto del Duce nel cortile del Quirinale, al riparo da sguardi indiscreti. Ma all’improvviso tutto sembra uscire dal calendario reale: la sfiducia arriva nella notte di sabato, Mussolini chiede di incontrare il Re domenica e la scena si sposta necessariamente dal Quirinale a Villa Savoia. Vittorio Emanuele è a disagio con l’idea di trasformare la casa di famiglia in una trappola politica per il presidente del Consiglio. Farlo fermare dai carabinieri sulla Salaria, appena fuori dal cancello? Troppo rischioso, c’è la scorta armata del Duce sul posto. Il Sovrano si deve rassegnare: tutto avverrà nel recinto reale domestico. D’Acquarone, con una telefonata, dà finalmente il via libera che il generale Ambrosio attendeva da mesi. E Ambrosio affida l’arresto ai Carabinieri, l’Arma fedelissima al Re, segretamente già in stato d’allarme a Roma: tutti consegnati nelle caserme dalle ore 16.
Ecco perché la Regina Elena vede arrivare cinquanta carabinieri che scendono nel parco di Villa Savoia da un camion col tendone chiuso. È in giardino, nessuno le ha ancora detto nulla, guarda Vittorio Emanuele salire i gradini dell’ingresso con il generale dei carabinieri Cerica, misurando gli spazi e i tempi tra il commiato del Duce e l’arresto, come se provassero la scena madre a cielo aperto, nel teatro della Casa Reale.
L’uomo che tutti attendono, intanto, non riesce a leggere l’ultimo transito della sua ruota del destino. Ha appena infilato in una cartella la legge istitutiva del Gran Consiglio, il parere dei giuristi che lo riducono ad organo consultivo, la lettera di ritrattazione di Cianetti: li mostrerà al Re, spiegandogli che il voto è senza conseguenze istituzionali. È ormai pronto, nell’abito blu scuro troppo pesante per l’estate, scelto da una Rachele in subbuglio: ma alle 16.20, mentre Boratto ha già acceso il motore della “Presidenziale”, si attarda ancora a discutere con Scorza, fissandogli un appuntamento: «Vi aspetto dopo l’udienza reale». È la sua ultima telefonata da Duce, convinto di avere ancora un “dopo”. Non lo pensa Rachele, che intuisce anche ciò che non capisce, e adesso corre di fianco all’automobile che va verso il cancello. Dal finestrino arriva il suo ultimo avvertimento a Mussolini e De Cesare: «Non tornerete – grida –, non tornerete a casa questa sera…».
Quando sente il rumore dell’auto che frena davanti al piazzale, la Regina fa appena in tempo a imboccare lo scalone che porta all’appartamento privato. Attraversando l’atrio Elena intravvede Mussolini mentre va incontro al Re che lo attende nella divisa di Primo Maresciallo dell’Impero. Avverte solo le prime parole di Vittorio Emanuele, quando guida l’ospite nello studio: «Caro Duce, l’Italia va in tocchi». Poi la porta si chiude. Ma in quella stanza il Capo del governo si accorge subito che il Re è molto agitato, mozza le parole, la fretta lo trascina. Non fa nemmeno sedere il Duce: «Le cose non vanno. L’esercito è moralmente a terra, i soldati non vogliono più battersi, gli alpini cantano una canzone in cui dicono che non vogliono fare la guerra per Mussolini». Il Sovrano alzando il dito recita in piemontese una strofa del canto. Il Duce apre la borsa, prende un documento, ma il Re lo ferma: «Non serve. Il voto del Gran Consiglio è tremendo: diciannove sì per l’ordine del giorno Grandi. In questo momento siete l’uomo più odiato d’Italia, vi è rimasto un solo amico: io. Per questo vi dico che non dovete avere preoccupazioni per la vostra incolumità che farò proteggere». Si guardano in silenzio. Poi il Re pronuncia la frase decisiva, con cui decreta la fine del Duce, che non smette di fissarlo. «Ho pensato che in questo momento l’uomo della situazione è il Maresciallo Badoglio. Egli comincerà col formare un Ministero di funzionari, per l’amministrazione e per continuare la guerra. Fra sei mesi vedremo. Tutta Roma attende un cambiamento».
Adesso è Vittorio Emanuele che osserva Mussolini e attende la reazione. Fa un calcolo: c’è come sempre la pistola carica nel primo cassetto della bassa scrivania davanti alla finestra, ci sono i due ufficiali armati fuori dalla porta col generale Puntoni: tutto è predisposto. Ma il Duce non si guarda nemmeno intorno, è sconvolto, la sua voce ha cambiato tono mentre prova comunque a convincere il Re. «Voi prendete una decisione di una gravità estrema. La crisi farà credere al popolo che la pace è in vista, il colpo al morale dell’esercito sarà serio. Se i soldati non vogliono più fare la guerra per Mussolini non ha alcuna importanza, purché siano disposti a farla per voi. Mi rendo conto dell’odio del popolo. Non si governa così a lungo e non si impongono tanti sacrifici senza che ciò provochi risentimenti. Ad ogni modo io auguro buona fortuna all’uomo che prenderà in mano la situazione». Ma il Re si sta già dirigendo verso la porta, dalla finestra di una sala la Regina lo vede mentre accompagna sul piazzale Mussolini che le sembra invecchiato di vent’anni, gli prende la mano stringendola tra le sue. Poi rientra in fretta, come se volesse suggellare l’incredibile che ha vissuto quasi senza crederci. Il Re ha appena licenziato il dittatore.
Tutto era durato venti minuti, sufficienti a cancellare l’onnipotenza che aveva dominato l’Italia nella violenza, e a liberare il cammino della storia. Il Duce si volta, scende i tre gradini, va verso la sua auto. Non ha il tempo di accorgersi che l’autista non c’è perché il capitano Paolo Vigneri, che comanda la compagnia “Interna” di Roma fa un passo avanti, scatta sull’attenti e gli dice: «Duce, in nome di Sua Maestà il Re vi preghiamo di seguirci per evitare il rischio di violenze da parte della folla». Disorientato, per la prima volta in balia di decisioni altrui, Mussolini prova a proseguire, quasi scusandosi: «Non è il caso…». Ma si sta avvicinando anche il capitano Raffaele Aversa, che guida la compagnia “Tribunale”: lui e Vigneri hanno ricevuto l’ordine di catturare il Duce “vivo o morto”, e il momento è questo. «Duce – insiste Vigneri – io devo eseguire gli ordini». «Allora seguitemi», lo invita Mussolini, allungando il braccio per aprire la sua auto. «No – lo blocca l’ufficiale – dobbiamo salire sulla mia macchina». Lo scorta sul lato d’ombra della casa. Quando vede l’ambulanza beige con la Croce Rossa il Capo del fascismo si irrigidisce, e si blocca: non capisce. Ma basta che il capitano gli serri il gomito, come per guidarlo, e lui china la testa, entra nell’ambulanza con i vetri smerigliati targata CRI 4736 e va a sedersi sul sedile di destra. Di fronte, il segretario, di fianco i due ufficiali, più cinque uomini armati: «Ma come – si stupisce Mussolini –, ancora altri agenti?».
Non rispondono, mentre l’ambulanza corre verso Trastevere, alla caserma Podgora. Ha l’aspetto della fine, un uomo arreso, schiantato moralmente, con un colore di malattia che lo indebolisce, tanto che stasera sembra rimpicciolito: e non sa ancora di essere sotto arresto. Dal varco del Fontanone il Duce esce dalla Casa reale e dalla vita pubblica, mentre la sua scorta armata attende ignara ai bordi della Salaria e della storia, davanti al cancello d’onore di Villa Savoia, inutilmente spalancato. Scendendo lo scalone, la Regina quasi si scontra col Re, che sta risalendo per cercarla. «È fatta», dice Vittorio Emanuele. «Se bisognava arrestarlo – quasi grida Elena, – questo doveva avvenire fuori da casa nostra. Il vostro non è un gesto da Sovrano». «Ormai è fatta», è la risposta del Re, che prova a scendere le scale prendendo la moglie sottobraccio: ma lei si divincola e sale a chiudersi in camera: «Non posso accettare una cosa simile. Mio padre si sarebbe rifiutato».
Alle 18.40 suona il telefono nel tinello a Villa Torlonia. Rachele è fuori a cercare un po’ d’ombra per la sua agitazione, insieme a Guido Buffarini Guidi, l’ex sottosegretario del Duce agli Interni, che è venuto a trovarla con un foglietto pieno di curve, punti, arabeschi disegnati da Mussolini durante le nove ore del Gran Consiglio: lì è finita tutta la rabbia del Duce, e a Rachele sembra di ricostruirla, attraverso quella mappa involontaria della sconfitta. Ma non c’è tempo per immaginare, tutto diventa nitido con quello squillo del telefono.
«Donna Rachele, Donna Rachele – arranca una voce dall’altra parte del filo –, sono un funzionario del Viminale. Ho il rammarico di annunciarle che Sua Eccellenza ha presentato a Sua Maestà le dimissioni, che sono state accettate…».
«Allora?». «È stato messo al sicuro, per misura precauzionale…».
«Ma cosa dite?». «È la verità. Cerchi di mantenersi calma e stia tranquilla. Saranno impartite disposizioni per la sua sicurezza personale e per quella della sua famiglia».
«Dio mio!». Rimane impietrita con la cornetta in mano. Buffarini, che ha guidato il Viminale fino al 5 febbraio, per dieci anni, non sa che fare, è annichilito dal panico. Arriva Irma, la cameriera, col marito che è il custode di Villa Torlonia: sarà vero? Come si fa a capirlo? Rachele chiama il Comando della Milizia, telefona all’ambasciata di Germania, si rivolge al centralino di Palazzo Venezia, chiede del generale Galbiati, prova a cercarlo a casa: chissà dov’è, nessuno sa niente. Ma se la notizia è vera, allora lei stessa e la sua famiglia corrono dei rischi. Dei suoi figli, Romano e Anna Maria sono in vacanza a Riccione, ma Vittorio è arrivato stanotte nella casa in fondo al parco: lo avverte subito, e lui scappa sulla “Topolino” a gas su via Spallanzani, mentre dall’ingresso principale stanno arrivando due camion da cui scendono carabinieri armati. Lei è dietro le finestre, afferra il telefono per protestare col Viminale, ma è muto. Buffarini chiede a Rachele di poter dormire a Villa Torlonia stanotte, non vuole tornare a casa: e intanto si versa il terzo bicchiere di cognac.
Da un’ora, cioè da quando il Duce è stato arrestato, il Duca d’Acquarone è a casa del Maresciallo Badoglio per il secondo atto. Non c’è bisogno di spiegare nulla, il Maresciallo aspettava da tempo, attendeva solo l’ora x. E adesso il Ministro della Real Casa è venuto a dirgli che il Re gli vuole parlare «urgentemente». A Villa Savoia il Re ha ancora i nervi tesi per il confronto col Duce, racconta la sua reazione: «Sembrava che avesse ricevuto un colpo da 305 in pieno petto. Allora, mi ha detto, il mio crollo è completo». Poi il Sovrano aggiunge: «Adesso lo sostituirà lei». «Ma io non ho mai fatto questo mestiere», obietta il Maresciallo. «Imparerà», assicura Vittorio Emanuele. Badoglio pronuncia i nomi dei possibili ministri cui ha pensato, Bonomi, Casati, Einaudi, Bergamini, Soleri, ma il monarca fa segno di no. «Vostra Eccellenza deve agire con celerità ed energia. Ha bisogno di un Ministero di tecnici, che eseguano con competenza gli ordini».
Il Sovrano fa leggere a Badoglio il testo dei proclami che tra poco attraverso la radio annunceranno la fine del fascismo. Con il suo predecessore agli arresti, il nuovo Capo del governo firma il regio decreto della sua stessa nomina. Uno strappo nella procedura: non si passa d’incanto dalla dittatura alla democrazia.
Mussolini è il primo pensiero del Maresciallo. Tornato a casa, scrive a mano una lettera su carta intestata al Ministero della Guerra, e la infila in una busta verde indirizzata al «Cavaliere Signor Benito Mussolini». È un atto di separazione guardingo, dove l’elemento politico è sotto traccia, implicito, mentre emerge un tentativo di rassicurazione personale, dominante: «Il sottoscritto Capo del Governo tiene a far sapere a Vostra Eccellenza che quanto è stato eseguito nei Vostri riguardi è unicamente dovuto al Vostro personale interesse, essendo giunte da più parti segnalazioni di un serio complotto contro la Vostra persona. Spiacente di questo, tiene a farVi sapere che è pronto a dare ordini per il Vostro sicuro accompagnamento nella località che vorrete indicare». Dopo il testo scritto in terza persona, la firma: «Il Capo del Governo, Maresciallo Badoglio». Il Duce ridiventato Cavaliere riceve all’una di notte la lettera del Maresciallo divenuto presidente del Consiglio. Trasferito (sempre in ambulanza) dalla caserma Podgora alla scuola allievi ufficiali “Vittorio Emanuele II” in via Legnano, visitato per precauzione dal dottor Santillo, Mussolini sta provando a dormire sul divano nell’ufficio del comandante, quando entra il generale Ernesto Ferone con la lettera di Badoglio. Lui legge il breve messaggio e detta al generale una risposta: «Desidero ringraziare il Maresciallo d’Italia Badoglio per le attenzioni che ha voluto riservare alla mia persona. Unica residenza di cui posso disporre è la Rocca delle Caminate. Desidero assicurare il Maresciallo che da parte mia non gli verranno create difficoltà di sorta, ma sarà data ogni possibile collaborazione.
Sono contento della decisione presa di continuare la guerra cogli alleati, così come l’onore e gli interessi della Patria esigono, e faccio voti che il successo coroni il compito al quale il Maresciallo si accinge in nome di Sua Maestà il Re, del quale durante 21 anni
Nei due messaggi c’è uno scambio tacito. Il Duce non sa nulla, se non ciò che Badoglio gli ha scritto. Il Maresciallo sa tutto, anche quello che non ha potuto scrivere. Gli interlocutori si rassicurano a vicenda su una fittizia piattaforma comune, l’obbedienza al Re e la guerra a fianco di Hitler: ma il Duce ha sempre sopportato a fatica il monarca, mentre Badoglio sta già pensando a come cambiare fronte. Questa notte però contano più di ogni altra cosa le garanzie personali. Il nuovo governo non prepara nuovi atti ostili a Mussolini, il quale assicura che non dirà nulla contro Badoglio. Ora il Duce aspetta. Nell’ufficio del colonnello Tabellini dov’è confinato, stanno montando un letto da campo. Dalla finestra lui legge la scritta sopravvissuta sul muro del cortile: «Credere, obbedire, combattere».
Adesso l’obbedienza dovrà andare a Badoglio. L’Italia lo ritrova dopo anni. Aveva ascoltato le accuse dell’imperatore deposto Hailé Selassié «contro lo sterminio di un popolo con i mezzi barbari dei gas venefici», ma aveva applaudito il Maresciallo come primo Viceré d’Etiopia quand’era sbarcato a Napoli scortato da quattro sottomarini tra il suono delle campane, mentre il Principe di Piemonte saliva sulla tolda per esprimergli la riconoscenza della Nazione. In casa un intero scaffale ospita le decorazioni, con l’Ordine di Wan Fu e il papiro cinese che gli riconosce il diritto a sette concubine esposti davanti a lui, mentre rilegge i due proclami. Li ha scritti il vecchio Vittorio Emanuele Orlando. Per dire al Paese che la legalità era ripristinata, la Corona ha dovuto ricorrere a un uomo di 83 anni che aveva guidato il governo prima di Mussolini: come se i vent’anni di dominio del Duce avessero prosciugato tutte le energie democratiche del Paese.
Quando legge i proclami il direttore dell’agenzia “Stefani” Roberto Suster chiede tempo: annunciano le dimissioni del Duce, il cambio di governo, l’arrivo di Badoglio. Un evento clamoroso, lui ha bisogno di conferme, chiama il Quirinale poi avverte i suoi referenti, il ministro della Cultura Popolare Polverelli, il presidente della “Stefani” Manlio Morgagni, deputato e amico personale di Mussolini. Risultato: l’informazione più clamorosa degli ultimi due decenni viaggia in ritardo, la “Stefani” la batte alle 22.15, l’Eiar ha l’ultimo notiziario mezz’ora dopo, alle 22.45. All’ora canonica il giornale radio non parte, c’è la musica che riempie otto minuti di confusione. Poi la voce ben nota dell’annunciatore Titta Arista: «Attenzione, attenzione». Una pausa. «Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del Governo presentate da Sua Eccellenza il Cavaliere Benito Mussolini, ed ha nominato Capo del Governo Sua Eccellenza il Cavaliere Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio».
Segue la lettura del proclama di Vittorio Emanuele III: «Italiani, assumo da oggi il comando di tutte le Forze Armate. Nell’ora solenne che incombe sui destini della patria ognuno riprenda il suo posto: nessuna deviazione deve essere tollerata, nessuna recriminazione può essere consentita. Ogni italiano si inchini davanti alle gravi ferite che lacerano il sacro suolo della Patria. L’Italia ritroverà nel rispetto delle istituzioni la via della riscossa. Italiani, sono oggi più che mai indissolubilmente unito a voi dalla incrollabile fede sull’immortalità della Patria». Infine il messaggio di Badoglio: «Italiani, per ordine di Sua Maestà il Re e Imperatore assumo il Governo Militare del Paese, con pieni poteri. La guerra continua. L’Italia, duramente colpita, mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni. Si serrino le file attorno a Sua Maestà, immagine vivente della Patria. La consegna ricevuta è chiara e precisa e chiunque si illuda di poterne intralciare lo svolgimento sarà inesorabilmente colpito. Viva l’Italia, viva il Re».
Prima della fine dell’annuncio, arriva la notizia che il presidente della “Stefani”, Morgagni, si è sparato alla testa nella villa romana al 20 di via Nibby, lasciando un biglietto per Mussolini: «Mio Duce! L’esasperante dolore di italiano e di fascista mi ha vinto! Non è un atto di viltà quello che compio, non ho più energia. La mia vita era tua. Ti domando perdono se sparisco. Muoio col tuo nomesulle labbra». Ma nella notte nibelungica c’è ancora un problema da risolvere. Tutti i messaggi di Stato da dieci anni si chiudono alla radio con la “Marcia Reale” seguita immediatamente dalle note di
L’inno fascista unito all’inno nazionale, come una cosa sola, nel legame del regime. Ma stasera, cosa bisogna fare? Nessuno può prendersi la responsabilità di continuare come sempre, ma neppure quella di separare le musiche. Parte ancora una telefonata al Quirinale, l’Eiar cerca il Ministro della Real Casa, che decide la scomparsa dalle onde radio di
Così, mentre gli italiani corrono in strada per capire se è vero, per abbattere i simboli del fascismo, per esultare col tricolore, la “Marcia Reale” risuona solitaria nella prima notte di libertà, dove si spegne tra i canti la musica della dittatura.