Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  luglio 25 Martedì calendario

Non c’è voglia di sovranismo

Non funziona. Almeno non in Spagna. Ma probabilmente neppure in Europa. I popoli dei grandi Paesi europei non hanno tutta questa voglia di farsi stringere nella morsa tra i sovranisti e questa nuova versione, conservatrice e un po’ torva, dei popolari. Perché sono affezionati ai diritti e alle libertà. E perché sanno, o almeno intuiscono, che il sovranismo è la fine dell’Europa; e da sole Spagna, Francia, Germania nel mondo globale non contano molto più di nulla. Inoltre l’Europa ormai esiste, è un processo irreversibile, con la pandemia ha iniziato a fare debito comune; e i soldi garantiti dalla Bce (quindi dai tedeschi) fanno comodo a tutti. Non che vinca la sinistra. Anzi. Il voto per Pedro Sánchez – che si conferma a ogni occasione il più tosto tra i leader del socialismo europeo – è di resistenza, non certo di sfondamento. Il vento che spazza l’Europa, dalla Finlandia alla Grecia, è un vento di destra; come si vedrà anche in Olanda. Resta da capire quale destra. Perché ogni Paese fa storia a sé. In Polonia i popolari di Tusk e i sovranisti di Kaczynski sono l’un contro l’altro armati. In Germania per quasi vent’anni ha retto la diga di Angela Merkel, che a destra poneva un confine netto, e che per tre legislature su quattro ha governato con i socialdemocratici.
O ra il suo successore Friedrich Merz si è già rimangiato l’apertura ad accordi locali con Alternative für Deutschland (che non fa parte dei Conservatori europei presieduti da Giorgia Meloni, ma del gruppo di Salvini e Marine Le Pen). In Francia il populismo bruno della Le Pen e quello rosso di Mélenchon non si uniscono, mentre la destra repubblicana e la sinistra riformista hanno eletto per due volte Macron all’Eliseo e tra quattro anni troveranno qualcun altro.
In Italia è diverso: vale tutto e non abbiamo paura di nulla. La destra liberale, quella postfascista, quella federalista (se non separatista) si sono unite in un ipermercato di Casalecchio sul Reno nel gennaio 1993, e hanno sempre mantenuto la maggioranza relativa tranne nelle rare occasioni in cui si sono divise. Per capire come questo sia accaduto forse si è discusso fin troppo sull’eredità del fascismo, che è uscito dai giochi il 25 luglio 1943, e troppo poco su quella del comunismo, che in Italia ha ammainato la bandiera solo dopo il crollo del Muro tra scissioni, pianti e docufilm: anche questo ritardo ha penalizzato la sinistra e l’ha condannata a essere quasi sempre minoranza.
In Spagna è diverso. In Spagna si parla meno di Franco di quanto in Italia si parli di Mussolini; ma se ne parla molto di più rispetto a quando Franco era appena morto.
La folla che domenica notte gridava sotto la sede del partito socialista «No pasarán», lo stesso grido di Dolores Ibarruri detta la Pasionaria al tempo della guerra civile, non deve trarre in inganno. La Spagna non ha certo votato sulla memoria del franchismo, ma sull’Europa, sull’economia, e certo anche sulla guerra culturale che si è combattuta negli ultimi mesi: femminismo, cambio climatico, diritti. La grande differenza rispetto all’Italia è che quando la destra spagnola dichiara una guerra culturale, la perde.
I popolari avrebbero conquistato una maggioranza più ampia, e quindi oggi potrebbero governare, se gli elettori di sinistra non si fossero mobilitati come non era accaduto alle amministrative, meno di due mesi fa. E alla fine i radicali di Vox si sono rivelati il miglior argomento di propaganda dei socialisti.
Al tempo della Transizione alla democrazia, oltre quarant’anni fa, non era così. Felipe González sapeva bene che i socialisti avevano perso la guerra civile; ma era intenzionato a vincere la battaglia per stabilire chi avrebbe guidato la Spagna nella modernità. Durante i suoi quattordici anni di governo González non fu neppure sfiorato dall’idea di riaprire le fosse comuni, o di traslare la salma di Franco dalla tomba degna di Achille che si era fatto costruire dai prigionieri di guerra repubblicani. Fu chiamato patto dell’oblio; in realtà era un patto del silenzio. La preoccupazione di González era non riaprire le ferite, e assecondare lo sviluppo economico che in poco tempo ha fatto della Spagna, già ultima della classe dell’Europa occidentale, uno dei Paesi con il più alto tenore di vita al mondo.
Gli altri premier socialisti hanno avuto una visione diversa. Zapatero, nipote di un capitano dell’esercito fedele alla Repubblica e fucilato dai franchisti, volle la legge per la memoria storica, con cui finanziò gli scavi per recuperare i resti dei giustiziati repubblicani (ovviamente ci sono anche fosse comuni dove furono fatte sparire le vittime franchiste). Sánchez ha fatto togliere il corpo di Franco da Valle de los Caidos per trasferirlo in un cimitero di periferia. Ma non per questo ha rimosso l’ombra del Caudillo dalla vita pubblica spagnola.
Santiago Abascal, leader di Vox, è tecnicamente un anti-antifranchista. Quando il Corriere gli chiese un giudizio sulla guerra civile, rispose: «È sbagliato giudicare oggi i nostri nonni, perché ognuno scelse in buona fede ciò che gli pareva meglio per la Spagna». Se è per questo, il fondatore del partito popolare, Manuel Fraga Iribarne, si è spinto molto oltre nella difesa del Caudillo. A trent’anni dalla sua morte, ne tessé una sorta di elogio funebre: «Sono convinto che il giudizio storico sarà positivo. Sul 1975, e la transizione democratica. Ma anche sul 1939, e la guerra civile». E i massacri degli oppositori? «Furono anni terribili. C’era una cospirazione bolscevica internazionale contro la Spagna». E la pena di morte in vigore sino all’ultimo? «Nella mentalità di Franco, un terrorista che metteva una bomba contro i civili meritava la morte». E la Catalogna antifranchista? «Quando accompagnavo il Caudillo a Barcellona, sfilavamo tra due ali di folla plaudente».
Eppure è stata proprio la Catalogna a decidere il voto spagnolo. I socialisti hanno perso cinque seggi nel resto del Paese, e in Catalogna ne hanno conquistati sette. La frattura tra Madrid e Barcellona non è mai stata così netta, neppure quando i popolari vinsero le elezioni per la prima volta nel 1996, e sotto il balcone di Aznar i militanti gridavano: «Pujol, enano, habla castellano!». Il «nano» invitato a parlare spagnolo era il leader catalano Jordi Pujol, già arrestato in gioventù per aver cantato l’inno «La Senyera», la bandiera, in faccia a Franco, per poi rischiare di tornare in carcere da anziano per motivi meno nobili (32 milioni di euro portati dal figlio nel paradiso fiscale di Andorra).
Alberto Núñez Feijóo, l’attuale leader popolare, è galiziano come Franco e come Fraga. Ovviamente, è di tutt’altra pasta. Nel 1982 votò socialista. I popolari hanno governato la Spagna per quindici anni, prima appunto con Aznar poi con Rajoy (altro galiziano). Eppure la prospettiva di una svolta a destra, di un’alleanza tra il Pp e gli estremisti di Vox, ha ridestato un antico fantasma nella Spagna profonda.
Ora la partita è nelle mani di re Felipe; che è figlio di Juan Carlos, il Borbone rimesso sul trono da Franco. Qualcuno a Madrid teme che la guerra della memoria non finirà fino a quando non si affronterà l’ultimo tabù: la monarchia, sopravvissuta anche all’abdicazione tra gli scandali di Juan Carlos. Felipe ha un buon rapporto personale con Sánchez, gli dà del tu (e ne riceve il voi), ha fatto cambiare la Costituzione per consentire un giorno alla figlia Leonor di regnare, ha voluto che l’Infanta imparasse il catalano. Ma la questione di Barcellona è più aperta che mai: i separatisti devono decidere se lasciar governare Sánchez o riportare la Spagna al voto.
A giugno, di sicuro, vota l’Europa, tutta intera. I conservatori sono in partita; ma molto difficilmente l’Unione sarà governata dall’asse tra loro e i popolari, almeno non finché a Parigi c’è Macron e a Berlino Scholz. Non si guida l’Europa senza i due Paesi più importanti; tanto più senza Madrid.
«La Spagna frena l’onda Meloni» titolava ieri il suo commento sul giornale di Barcellona La Vanguardia, Enric Juliana, il più colto tra gli editorialisti spagnoli, che conosce bene l’Italia da dove è stato corrispondente. Ma Giorgia Meloni va considerata sconfitta se la sua «onda» è davvero quella autarchica e fosca di Vox. Se è quella di una destra europeista e liberale, può ancora rivelarsi un’onda lunga.