il Fatto Quotidiano, 25 luglio 2023
Schifano e Anita, i veri trasgressori
Al largo dell’Atlantico, dicembre dell’anno 1963. Due cuori al vento, la giovinezza, il viaggio della vita, verso l’America dei sogni. Sono partiti da Napoli, destinazione New York sul transatlantico Cristoforo Colombo.
Lei si chiama Anita Pallenberg, ha vent’anni, è bella da morire, ha i capelli biondi tagliati corti, gli occhi come stelle, il sorriso che incanta. Lui è Mario Schifano, dieci anni più di lei, artista nascente, arrivato dalla polvere di Homs, Libia, approdato profugo tra i fondali di Cinecittà, e poi dentro il catino sontuoso di piazza del Popolo, dove si ritrovano gli artisti che tramano intrecci notturni, fanno notte al Caffè Rosati dove incontrano Moravia e Buzzati, trattati da patriarchi, si inchinano al vecchio Ungaretti, quando passa, ascoltano Pasolini senza dargli retta, snobbano De Chirico che li chiama “pittori del Caos modernista”. Per il resto cercano ragazze, cercano soldi, a ondate sono ricchi, a ondate fanno la fame. Vanno a caccia della luce di notte e spesso dormono di giorno.
In un tempo futuro si dirà che quella era la scuola di piazza del Popolo, nuova onda della scena romana, artisti come Tano Festa, Franco Angeli, Francesco Lo Savio, Giosetta Fioroni, Cesare Tacchi. Ma all’epoca non era affatto una scuola, solo coincidenze biografiche e somiglianti insofferenze, raccolte dalle nuove gallerie d’arte: La Tartaruga di Plinio DeMartiis, la Salita di Gian Tommaso Liverani che stavano archiviando il vecchio mondo figurativo di Mafai, Donghi, Scipione, impastato dalla polvere del Dopoguerra. Dirà Nanni Balestrini: “La generazione dei vecchi era colta, preparata, paludata. Quella nuova era tutto istinto, talento, velocità. Schifano addirittura era elettrico”.
L’Atlantico è in tempesta. Anita: “La traversata durò nove giorni, tre di uragani. Le donne sotto coperta erano migranti, portavano tutte il velo nero. Noi correvamo sui ponti, tra onde gigantesche”. Sono entrambi l’apoteosi della giovinezza. Lei è alta, magrissima. Veste eccentrica, maglioni larghi, stivali, le labbra e le unghie dipinte di verde. A Roma ha smesso di frequentare l’Accademia. Ma fa la fotografa. Fa la modella. Fa la musa. Schifano è l’astro nascente. Ha l’elasticità e gli occhi di un felino. Lo chiamano il piccolo puma. Dipinge monocromi e “Paesaggi anemici” che sono nuvole in transito. Usa smalti francesi, i Repolin, gli stessi di Picasso, stesi uniformi su tela a raccontare l’enigma della vita.
La sua prima mostra, anno 1961, è un evento. Tutta venduta prima dell’inaugurazione. Racconterà il gallerista: “Con quei soldi si comprò una Mg decapottabile bianca. La sfasciò al primo incrocio. Non aveva la patente”. Ne comprò un’altra, rossa, che parcheggiò rombando davanti al Caffè Rosati e dalla quale scese distrattamente Anita, molto più di un’opera d’arte, lasciando incantati Federico Fellini e la sua corte.
Anita ha occhi solo per lui: “Mario era diverso da tutti. Era charmant. Era attraente. È stato il mio primo uomo in tutti i sensi. Mi parlava dell’America di Rauschenberg e di Andy Warhol, gli dissi andiamoci, ho una cugina a New York. È così che siamo partiti”.
Quel transatlantico è il destino. Quando sbarcano, New York è ancora in lutto per l’omicidio di JF Kennedy, ma l’underground ribolle. “Siamo andati a vivere sulla 47 esima, non avevamo un soldo, ci invitavano tutti”. A Soho conoscono Bob Richardson, il fotografo, e Leo Castelli il gallerista della Pop Art. Girano con Allen Ginsberg e Gregory Corso. Frequentano il Five Spot dove suona Ornette Coleman. Finalmente frequentano Andy Warhol e la sua Factory. Schifano si lega ai poeti Frank O’Hara e Le Roy Johns. Dipinge per loro. Immagina mostre che non farà. Scopre le ombre fluttuanti della droga. Anita: “Tutti fumavano. Girava l’oppio. Prendevamo Lsd senza neanche sapere cosa fosse. Provavamo tutto”.
La gelosia li tiene insieme e li separa. L’alcol e la droga li infiamma. I soldi li eccitano. Warhol insegna: “Good business is the best art”.
Lei a breve incrocerà i Rolling Stones. Prima una storia con Brian Jones, “il genio” che girava in Rolls Royce e si trafiggeva di eroina fino a morirne. Poi brevemente Mick Jagger, complice una vasca da bagno. Poi Keith Richards, la storia più lunga, il matrimonio, tre figli, dodici anni di convivenza, qualche volta condivisa con Marianne Faithfull, la compagna di Jagger.
Lui, dopo l’America, solo viaggi interiori. Scoprendo per primo le nostre ossessioni digitali. Poeta di lucentezze Pop. Per anni dentro l’enorme appartamento di Palazzo Primoli, le vetrate sul Tevere, il letto in acciaio, i saloni pieni di televisori sempre accesi, che attraversava pedalando sulla bicicletta di Gimondi. I quadri dipinti in serie, venduti in serie, disegnati immaginandosi “in gara di velocità con la Polaroid”. L’assedio quotidiano delle donne che salivano per l’avventura e per la cocaina gratis. L’assedio degli spacciatori, dei galleristi, degli approfittatori, dei collezionisti. Lui perduto per sempre. Capace di bucarsi fino a sanguinare, fino al bianco dell’osso e dei tendini. Lui tre volte in carcere. Due in manicomio per sindrome maniaco-depressiva. Gli appelli di Moravia per la sua liberazione. Gli ultimissimi anni con Monica De Bei, finalmente un figlio. L’infarto a fine corsa, calendario fermo ai suoi 63 anni. E Anita? Invecchiata anche lei dentro a una siringa e a un bicchiere. Dirà “In confronto a Mario, i Rolling Stones erano ragazzi di campagna”.
Entrambi venivano da quella lontana traversata dell’Atlantico. E l’uragano che passò non era nulla in confronto a quello che li aspettava.