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 2023  luglio 25 Martedì calendario

Enrico Brizzi scrive una trilogia su Enzo Ferrari

Lo scrittore bolognese Enrico Brizzi si trascinerà sempre dietro la fama del suo primo, folgorante, romanzo, quel Jack Frusciante è uscito dal gruppo apparso nel 1994, lui meno che ventenne, e diventato una piccola Bibbia generazionale. In molti si chiesero se non fosse un fuoco di paglia, e avrebbero scommesso che sì. Un quarto di secolo dopo, Brizzi invece è ancora tra noi in carne, ossa e penna; ha sfidato e ribaltato quel pronostico. È persino uno dei più prolifici: romanzi (ventidue), raccolte di racconti, saggi storici sul calcio e sul ciclismo, resoconti di viaggio... Ha fatto strada, anche a piedi, fondando il movimento degli Psicoatleti, camminatori instancabili sulle più lunghe rotte pedonali, dai pellegrinaggi cristiani all’itinerario di Giuseppe e Anita Garibaldi lungo lo Stivale.


Adesso è uscito Enzo. Il sogno di un ragazzo (HarperCollins Italia, pagg. 464, euro 20), biografia romanzata dei primi vent’anni di vita di Enzo Ferrari, italiano fra i più illustri del Novecento, ammirato in tutto il mondo. «È il primo volume di una prevista trilogia», spiega Brizzi, che neanche a farlo apposta è in montagna, dove va a camminare e a correre tutti i giorni. «Il primo volume racconta dei primi vent’anni di Ferrari, dal 1898 al 1918. Il secondo coprirà grosso modo il Ventennio».


Perché Enzo Ferrari?


«Perché è di Modena, ed è un’icona italiana della mia terra, l’Emilia. E perché mi affascina il fatto che sia stato un perfetto coetaneo delle proprie passioni. Insieme a lui, nasceva l’automobile, un dono di libertà e di avventura. Guidare un’automobile, all’inizio del secolo, dava la stessa sensazione di libertà che si prova oggi lasciandola a casa».


Non che l’auto non fosse anche osteggiata come una specie di strumento del diavolo... 


«Certo. Un caro amico di Ferrari, Giovannino Guareschi, che nel 1941 fece un giretto in bicicletta per il Corriere della sera (1.200 chilometri nell’Italia del Nord, ndr), su invito del costruttore provò una Ferrari che costui voleva regalargli e la rifiutò».


Il 1898, la Classe di ferro, una generazione che ha vissuto due guerre mondiali, l’epidemia  Spagnola, la Grande depressione. Sfortunati?


«Sì e no. Nel senso che quella è stata una generazione che ha vissuto anche grandi ideali. È assurdo, per giudicare i loro tempi, usare i parametri di oggi del politicamente corretto. Erano innovatori, credevano sinceramente in quello che facevano. I Futuristi, per esempio: hanno dettato le regole dell’arte non solo nel nostro Paese, ma nel mondo. L’opera di quella generazione va contestualizzata. Erano uomini capaci di ardere delle proprie passioni. Oltretutto, la mia versione biografica di Enzo Ferrari è anche la biografia di una gente, di una terra che è anche la mia».


Il libro contiene fitte e accurate descrizioni della vita e della società di allora. Come ha conciliato la veridicità dei fatti con l’invenzione fantastica?


«Diciamo che mi sono dato dei limiti, mi sono imposto di rimanere dentro un perimetro di fatti e situazioni ricostruiti sulla base di una documentazione rigorosa. A proposito del personaggio di Norma, la ragazza di cui Enzo adolescente si innamora, ho rievocato la sala Tersicore, un luogo dove a Modena la gente andava a schettinare già nel 1913. Idem per l’esperanto, lingua artificiale, ma molto ben accolta all’interno delle comunità ebraiche, nella speranza di trovare in un idioma comune uno strumento per la risoluzione dei conflitti».


Ferrari aveva anche un’altra passione: la scrittura. Avrebbe voluto diventare giornalista.


«Infatti ricostruisco il suo rapporto con lo scrittore Luciano Zuccoli (nel romanzo è ribattezzato Alfiero Borromei, ndr), che effettivamente prese il giovanissimo Enzo come suo assistente. Zuccoli fece parte del gruppo dei Dieci, gli autori di un’opera ucronica collettiva ideata da  Marinetti. Erano tempi di sperimentazioni eccentriche. La cultura italiana non aveva niente da invidiare a quella internazionale. E non erano solo anni di sfrenato nazionalismo, c’era ben di più. Il fascismo stesso non era ancora quello delle leggi razziali».


Andava descritto anche l’uomo nella sua intimità, nel suo mondo famigliare e privato. Come ci è riuscito?


«Sempre attingendo alle fonti. Quando descrivo la madre Gisa tengo conto del suo carattere romagnolo, quello che gli emiliani giudicano troppo sanguigno, e delle sue tendenze che oggi si direbbero femministe, come il sostegno per il voto alle donne. Il voto alle donne fu ottenuto tardi, per via dell’opposizione della Chiesa, ma anche dei socialisti. Ognuno temeva che il voto delle donne venisse dato agli altri».


E quanto ai sentimenti?


«Di Enzo Ferrari si conoscono pochissime ammissioni di debolezza. Una riguarda la famiglia di origine, dove i litigi erano all’ordine del giorno. Il padre, titolare di un’officina meccanica, era sempre al lavoro; gli ha trasmesso l’etica del lavoro più che la serenità famigliare».


Le donne?


«Nella fase matura della vita di Enzo Ferrari entra la terza donna importante, Fiamma Breschi. Le scrive moltissimo, dimostrando uno spirito dolce e romantico ben distante dall’immagine pubblica. Lei sostiene che lui la volesse sposare. Ma dopo la morte di Ferrari, ne mette all’asta l’epistolario».