La Stampa, 24 luglio 2023
Quelli che si feriscono da soli
Lo studio di Magda Di Renzo è pieno di giocattoli. Laureata in Filosofia, Logopedia e Psicologia, analista junghiana, è responsabile del servizio di Psicoterapia dell’Infanzia e dell’Adolescenza dell’istituto di Ortofonologia di Roma, dove mi riceve. Le chiedo cosa sta accadendo ai ragazzi e le ragazze di cui si occupa. Prima di tutto, mi spiega, da qualche anno i disturbi del pensiero in età adolescenziale sono diventati disturbi del comportamento. «C’è stato un progressivo scendere del disagio e del dolore dentro il corpo. Una decina di anni fa, ben prima del Covid, avevamo fatto un’inchiesta, intervistando migliaia di ragazzi. Avevamo individuato un nuovo tentativo di costituire un’identità nelle dimensioni estreme, gli sport estremi, il jumping, il parkour, la forza del corpo. Come se gli adolescenti cercassero un limite, un confine, che il mondo adulto non era più in grado di dare».
Mi parla a lungo di questo concetto di limite, che ritiene cruciale: «La forza, la determinazione, il coraggio sono tutti tentativi dei ragazzi di misurare fin dove possono arrivare, qual è il confine appunto. L’evaporazione del padre, diceva Lacan, la società liquida, secondo Baumann, sono concetti che afferiscono alla stessa questione: gli adolescenti fluttuano, non hanno appigli, non hanno a disposizione nessuna autorevolezza a cui rifarsi. Sono confusi. Questa tendenza è andata sempre più avanti, e adesso il corpo degli adolescenti è diventato il palcoscenico “delle ombre collettive”, attraverso varie forme di autolesionismo, il cutting, anoressia e bulimia. Quando chiedo ai ragazzi di raccontarmi perché si tagliano (il cutting è la pratica di auto infliggersi ferite sulle braccia, le gambe, ndr) mi dicono che è il loro modo di entrare dentro il corpo. Raccontano che il momento della ferita, quando affondano il rasoio o il coltello nella carne e il sangue inizia a uscire, produce finalmente una grande calma, dopo l’estrema tensione che lo precede. Dunque il cutting non è una condotta suicidale, ma un tentativo estremo di trovare vita nel disagio. È così anche l’eccesso di dimagrimento. Diceva il grande Winnicott che “dovunque c’è un adolescente che lancia una sfida, dev’esserci un adulto pronto ad accoglierla”, ma questo non accade più. Se non c’è limite non c’è trasgressione e senza trasgressione non c’è crescita. L’altro problema molto grande è che noi abbiamo permesso alla società di spostarsi verso l’efficientissimo e la prestazione. E qui veniamo all’altro filone, che è diventato una piaga, che è quello del ritiro sociale, dei ragazzi hikikomori. Che non a caso nasce in una società competitiva come quella giapponese, e che adesso ha attecchito anche da noi. Abbiamo dato importanza soltanto all’aspetto prestazionale, trascurando la crescita emotiva. A questo si associa una nuova vergogna del corpo. Siamo passati da una società della colpa a una società della vergogna. Ma anche la vergogna nasce dal non essere stati contenuti emotivamente. Questi bambini da subito vengono esibiti, ma quando iniziano ad avere una consapevolezza si bloccano. Sono vittime di un senso di inadeguatezza fisica, non si sentono mai abbastanza “belli, accettabili, forti”. Quelli che siamo riusciti ad agganciare, con cui abbiamo fatto anche dei lavori a camera spenta, proprio per assecondare la vergogna, hanno rivelato famiglie in cui c’è un’assenza del paterno – quell’evaporazione del padre di cui parlava Lacan – con un materno predominante e simbiotico. Questa è una cosa che io sto notando tantissimo negli attuali disagi: un materno che è presente sul piano dell’accudimento, ma non sul piano emotivo. Accudimenti condotti fino a tarda età, che però non elaborano una crescita sentimentale. Sono situazioni in cui il padre non riesce a creare una separazione della diade madre-bambino. Io ogni giorno ricordo ai padri: vi hanno mandato sulla terra per aiutare i bambini a separarsi dalle madri, e voi bisogna che lo facciate questo lavoro, come diceva sempre il solito grande Winnicot. E invece in queste situazioni di ritiro sociale questo non avviene. I padri o non ci sono o comunque sono assenti alla normatività. Incapaci di mettere confini, di dire basta. Perché ormai il problema dei genitori è diventato quello di farsi voler bene dai figli. Tante volte parlando con ragazzi che si trovano nel loro momento adolescenziale, trovo genitori che vivono a loro volta dei momenti adolescenziali. Per carità, i genitori non devono rinunciare a una loro vita, però in quel momento l’adolescenza di cui occuparsi è quella del figlio. Abbiamo privato questi ragazzi della possibilità di avere delle cose da combattere, di avere delle idee da contestare, di avere degli adulti con cui scontrarsi. I genitori sono diventati amici e questo è un danno incommensurabile. Manca la responsabilità, mancano gli adulti. I ragazzi si sentono responsabili per i genitori, invece che il contrario. Un ragazzo che si taglia è venuto qui perché ha detto che si sentiva un po’ a disagio con gli amici, ma non lo aveva detto ai genitori. Quando la situazione è migliorata gli ho detto senti io penso che i tuoi genitori devono saperlo, perché non è una cosa peccaminosa, e lui ha detto “però mamma poi si preoccupa”. Ed è stato effettivamente difficile far capire ai genitori che non si trattava di un peccato, ma di disagio e quindi non bisognava rimproverarlo. Gli adulti che non riescono ad adultizzarsi e hanno rinunciato alla loro missione di responsabilità. Una ragazza, che ha tentato di suicidarsi, mi ha detto “però non parlare subito con mamma, non ce la fa”. Lo sento dire spessissimo. Poi ci sono quelli provocano i genitori, che dovrebbe essere un normale comportamento da adolescente. Ma i genitori non reagiscono. Io mi trovo a dire tante volte ai genitori: ma che altro deve fare perché voi gli diciate basta o che succede? Questi ragazzi, a volte bambini, si trovano ad avere in mano troppo potere. Anche questa è una cosa che dico spessissimo ai genitori: quando chiedono ai figli di due anni che vuoi fare, dove vuoi andare, creano loro un’ansia tremenda».
Confini, separazioni, prestazioni… «Anche nei sistemi diagnostici tutto viene misurato in termini di prestazione, come se l’evoluzione emotiva non fosse uno dei requisiti fondamentali della crescita. La diagnosi categoriale fotografa come stai in questo momento, ma fa perdere la dimensionalità dello sviluppo. Siamo diventati un collettivo che non fa più nessi. Edgar Morin, a novantanove anni, ha scritto nel suo ultimo libro, “Cambiamo strada”, che il grande problema, reso evidente dalla pandemia, sta nell’aver separato ciò che doveva rimanere unito. Negli ultimi venti anni abbiamo separato il mondo delle prestazioni da quello emotivo, la sessualità dall’emotività, e in questo modo abbiamo frammentato le esperienze. Abbiamo fatto una ricerca su come i ragazzi vivessero la sessualità, ed è stato evidente che la sessualità dai ragazzi era del tutto separata dall’affettività. Senza eros. Rinunciare alla sacralità del corpo, al rispetto del corpo – questo vale per una donna come per un uomo – vivere il rapporto sessuale come una pratica da espletare, come una prestazione, senza la tenuta emotiva, è pericoloso. Soprattutto le ragazzine non son più in grado di distinguere l’amicizia, l’affetto, il desiderio, la sessualità. Dove c’è qualcosa di più emotivo, intendono sessuale. Ragazzine di dieci e undici anni dicono “io forse sono omosessuale” perché sono legate a una relazione affettiva, che comporta anche esplorazioni sul corpo, con un’amica. Può darsi che sia vero, ma spesso è solo incapacità di decifrare le diverse emozioni».
Ma non potrebbe essere, chiedo, che siamo noi a non capirci più nulla, noi uomini e donne del Novecento, cresciuti con l’idea del peccato, leggendo le teorie freudiane sulla sessualità, che abbiamo con il sesso un rapporto angoscioso, poco naturale? «Questa domanda me la faccio ogni giorno. Certo che può essere, ma perché io mi pongo la questione? Perché questi ragazzi stanno male, perché vengono da me con le crisi di panico. Sta mancando sempre di più negli anni il processo di mentalizzazione del corpo: come dice ancora Edgard Morin, separando abbiamo rinunciato alla completezza. Io penso sempre a questo paradosso: nella società della massima diffusione dei mezzi di comunicazione, nella società dell’immagine, noi abbiamo il massimo dei problemi di apprendimento. Quindi, da cosa dipende? È che in realtà anche i problemi di apprendimento vengono diagnosticati in base alla prestazione. Non viene mai valutato se il bambino è pronto emotivamente. Sa quanti bambini sono andati a scuola un anno prima, senza essere pronti emotivamente?». Visto che la questione riguarda ormai soprattutto il corpo, lo sport secondo lei aiuta? «Tantissimo, i ragazzi che fanno attività sportiva stanno molto meglio. Lo sport crea un rapporto con la corporeità che oggi sta proprio tanto mancando. Questi ragazzi non sono abituati a fare cose. Io ho ragazzi che a sedici anni non hanno mai preso l’autobus e si muovono accompagnati in macchina dai genitori. Non c’è quella dimestichezza di dire “scendo, salgo, faccio”. Ma non è una responsabilità dei ragazzi. I genitori sono preoccupati, hanno paura del pedofilo fuori da scuola, dello spacciatore, e quindi esercitano un ipercontrollo. Sa quanti ragazzi, anche di diciassette anni, hanno la app sul telefono che permette ai genitori di vedere dove stanno? Se a quell’età non si è passati dal controllo alla responsabilità, è un disastro».
Chi si rivolge a lei? «Noi siamo un servizio del territorio nazionale, quindi abbiamo quattrocento bambini in convenzione. Ma vi accede solo chi ha un tema riabilitativo (un disturbo nel parlare o nelle scrivere, per esempio), se invece hanno un problema emotivo non c’è convenzione. Questa è una cosa gravissima, a proposito di separazione e scissione. Per gli adolescenti che non hanno problemi neurologici o fisici non c’è una convenzione». Ragazzi vengono qui spontaneamente? «Gli adolescenti di solito sì, quando sentono di non star bene. Qualche volta sono i genitori, preoccupati da comportamenti strani. Fino a quattro, cinque anni fa, la maggior parte delle richieste da parte dei genitori avveniva perché i ragazzi andavano male a scuola, adesso cominciano a essere spaventati se vedono il figlio che sta molto solo, che non ha amici, o ha problemi alimentari. Un’altra questione è quella dei ragazzi plus dotati, i quali, se non diagnosticati, finiscono per sviluppare dei disagi. Gli hikikomori per esempio, sono quasi sempre ragazzi con un quoziente intellettivo molto alto. Sono soggetti a disarmonie, perché, essendo altissima la capacità cognitiva, la parte emotiva non riesce a stare dietro. Si definisce dissintonia tra la sfera emotiva e cognitiva. Esprimono alla perfezione il problema che il collettivo ci presenta da anni, quella separazione di cui parlavamo. Sto facendo un grande lavoro su questo, perché se noi li aiutiamo da subito, prima della scolarizzazione, evitiamo che ci siano tutti quei fallimenti e distorsioni che portano poi a diagnosi».
Come si fa a sapere che un bambino è plusdotato a quattro anni? «Se lei avesse incontrato i bambini che abbiamo incontrato nell’ultimo mese lo capirebbe. Una bambina a quattro anni ha letto al contrario una scritta sul foglio della terapista, ma nessuno le aveva insegnato a leggere. Un bambino di tre anni distingueva le figure, le targhe. Ma sono bambini che non si spengono mai, hanno sempre bisogno di stimoli, i genitori sono sfiniti. La plus dotazione intellettiva è spesso genetica, e va intercettata precocemente. Spesso infatti questi ragazzi finiscono per andare male a scuola, e sviluppare disagio sociale». Me ne vado pensando alle ultime parole di Magda di Renzo: «I ragazzi dicono non mi piaccio. Ma non sarebbe più giusto dire che viviamo in un collettivo dismorfofobico piuttosto che dire che è un problema degli adolescenti?». Siamo un collettivo dismorfofobico, ecco cosa siamo. —