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 2023  luglio 24 Lunedì calendario

Sulla convivenza

Spesso quando si parla di «convivenza» si è portati a vederci prima di tutto un capitolo della filosofia politica, in riferimento alla «convivenza pacifica» tra gli Stati o al contratto sociale, la decisione degli umani di creare un commonwealth che ponga termine alla guerra di tutti contro tutti. Ma a mio parere è un errore. Che non sta certo nel tentativo, nella necessità, di sviluppare quanto più possibile la convenenza in politica, nel momento in cui soffiano possenti i venti di guerre. Ma piuttosto nel considerare la convivenza politica come il paradigma, la forma essenziale della convivenza. A mio parere non è così: è la copia, imperfetta e burocratica, di un fatto molto più profondo e definitorio dell’umano, il bisogno di stare insieme, la cui mancanza genera le maggiori sofferenze spirituali di cui la vita ci obbliga spesso a fare esperienza, e che esplodono con particolare virulenza durante le vacanze, quando l’interruzione del lavoro può significare, per i meno fortunati, una interruzione del convivere.
Di questa necessità dell’essere insieme abbiamo esempi illustri, anche senza risalire ad Adamo ed Eva o a Eurialo e Niso. Tra il 16 e il 18 agosto 2004 Jacques Derrida, che si trovava nella fase terminale del cancro che lo avrebbe portato via di lì a poche settimane (sarebbe a morto a Parigi il 9 ottobre), non si sottrasse alla fatica di una traversata dell’Atlantico, un lunghissimo viaggio verso sudovest, per partecipare al convegno Per una riflessione sulla decostruzione: problemi politici, etici ed estetici. Quello sforzo eroico e quasi sovrumano non è difficile da spiegare: Derrida era sempre vissuto, come spesso accade agli autori, in vista di una comunità di lettori, ed era a quella comunità che voleva dare un saluto finale. È, se vogliamo, l’inverso speculare ma complementare dell’ampia raccolta di epicedi di amici e compagni di cammino che in gran fretta aveva pubblicato l’anno prima, Chaque fois unique, la fin du monde, «ogni volta unica la fine del mondo», perché è vero che ogni volta che un umano se ne va è un mondo intero a inabissarsi, quello, grande o piccolo, con cui aveva relazioni, e che costituiva il suo mondo. Cioè, ecco il punto da cui è necessario partire, il mondo di un singolo immerso in una comunità.
In altri termini, ego cogito, ego sum è una certezza di esistenza, ma da solo è poca cosa se non viene integrato dall’enorme ricchezza dai nostri simili, coloro con cui abbiamo rapporti, siano essi di amicizia o di inimicizia, ma che godono con noi del nostro tempo: il tedesco Zeitgenossen, che sta per «contemporanei», significa proprio questo: godersi o condividere uno stesso tempo. Sarebbe dunque sbagliato vedere in Cartesio un filosofo solipsista, perché anzi tutta la sua riflessione si riassume nella prova che esiste un Dio, che ha creato un mondo esterno, e che, in questo mondo, ci sono degli alter ego. Viceversa, un vivere che non comportasse un convivere non sarebbe vita. Perché? Le prime prove vengono dall’esperienza diretta. Il fatto che l’umano sia un animale sociale è una solida ovvietà. Non vedremo mai un gatto frustrato dal disinteresse di un altro gatto, mentre vedersi togliere il saluto, o subire una ostentata indifferenza, è una delle peggiori offese, e patimenti, che possano toccare a un umano. Si pensi all’anatema scagliato su Spinoza dalla sua comunità di appartenenza: «Siete tutti ammoniti, che d’ora innanzi nessuno deve parlare con lui a voce, né comunicare con lui per iscritto; che nessuno deve prestargli servizio, né dormire sotto il suo stesso tetto, nessuno avvicinarsi a lui oltre i quattro cubiti (pressappoco due metri, come ai tempi del lockdown), e nessuno leggere alcunché dettato da lui o scritto di suo pugno».
Perché questo anatema che lascerebbe completamente indifferente un ramarro risulti tanto tremendo, e corrisponda a quella forma di morte secca e tagliente che è la morte civile, ci riconduce alle origini della natura umana. E anzitutto alla nostra prima natura di organismi, e di organismi particolarmente svantaggiati e lenti nella evoluzione. Proprio per questo il convivere, come rimedio che introduce una seconda natura nella prima, sin dall’inizio, è certamente radicato nei nostri bisogni di accudimento, legati alla neotenia, cioè al sopravvivere di elementi infantili nello sviluppo dell’adulto, che è distintivo dell’umano. Così come umano, troppo umano, è il suo tardivo sviluppo, che lo rende dapprima dipendente dalle forme del nutrimento ricevuto come lattante (che è una primissima ed elementare forma di convivenza) sino alla dipendenza del figlio rispetto all’autorità simbolica o magari ai ricatti sentimentali di un genitore o di un professore, dello scrittore dal parere della critica, e di me stesso, ovviamente, rispetto a come giudicherete queste righe.
Ma non si tratta soltanto di povertà, di bisogno. È difficile immaginare una vita realmente tale che sia una vita priva di altri io. L’anacoreta o Robinson vivono certamente una vita solitaria, e il primo per scelta, il secondo per necessità; vivono cioè in solitudine, ma è una solitudine popolata dai fantasmi di una vita sociale precedente. Mentre un animale umano che crescesse in completo isolamento non avrebbe speranze di sopravvivenza, a meno (come in storie favolose, che riempiono la nostra infanzia, dei fanciulli adottati dai lupi) che prenda le forme del gruppo di appartenenza; dunque, di una comunità che non è umana. E non si tratta nemmeno, semplicemente, della generica condivisione di una natura umana. Per esempio, è difficile sostenere che passare il proprio tempo tra sconosciuti sia veramente «convivere». In questi casi, piuttosto, si ha l’impressione di essere soli in una moltitudine, che è esattamente il contrario del convivere. Inversamente, ci possono essere delle relazioni di coppia che, soprattutto nella prima fase, quella dell’innamoramento assoluto ed esclusivo (un dono raro che molti umani non hanno avuto la grazia di conoscere), possono lasciare sullo sfondo il mondo circostante per non far risaltare che due figure. Sono grandi momenti, che ovviamente passano, si trasformano, a volte si spezzano lasciando grande dolore, ma che dimostrano la quintessenza e l’eccellenza di una convivenza che non è né sociale né politica.
In tutti i casi che abbiamo esaminato, dall’archetipo o stereotipo del contratto sociale alla singolarità sempre diversa dell’unione che può avvicinare due umani in una coppia, è in opera un circolo ermeneutico, quello della vita sociale. L’animale umano, che possiede soltanto delle finalità interne, come qualunque altro organismo, riceve, molto presto, nella vita, una serie di finalità esterne, crescendo molto giovane in un mondo molto vecchio e pieno di miti, riti, tradizioni e linguaggi. Nel frattempo, è impegnato in imprese stremanti, se guardate retrospettivamente, come acquisire la stazione eretta, imparare a parlare, poi a leggere, scrivere e far di conto...
Tutta questa valanga di finalità interne ritorna sull’animale umano che nel frattempo si sente ormai più umano che animale. Sta vivendo, ma la sua vita è già molto diversa da quella degli altri organismi perché è piena di ambizioni, difficoltà e mancanze che gli altri organismi non sospettano neppure remotamente, e che hanno a che fare, inevitabilmente, con il convivere. Non troveremo mai un castoro frustrato perché ha preso un brutto voto a scuola o in ambasce perché la castoressa di cui è perdutamente innamorato non risponde ai suoi messaggi o si limita a emoticon sibillini o sciatti. Questi sono modi d’essere che appartengono esclusivamente alla forma di vita umana. Ed è proprio in questa forma di vita che può accadere a un umano di porsi una domanda inconcepibile per un castoro o per un delfino, ossia chiedersi se quella che sta vivendo sia una vita vera o finta, se abbia o meno una esperienza autentica della vita, e sottilizzare per tantissimo tempo, magari per tutta la vita, su quesiti del genere, per concludere, ancora una volta, che una vita solitaria non è vita.
Quello che propongo con l’idea del convivere come elemento costitutivo della natura umana, tanto della prima, quella biologica, quanto della seconda natura, quella sociale, è una trascendenza nell’al di qua. Noi non siamo soli al mondo, c’è un altro, diverso da noi ma umano come noi a cui possiamo rivolgerci con odio o con amore, ma appunto come a un alter ego che ha, in sé, qualcosa di noi (il ricorso agli animali di compagnia è anche ammesso, ma non è difficile notare a quali e quanti processi di antropomorfizzazione sottoponiamo cani, gatti, pappagalli...). È la regola del gioco: non puoi sentirti umano senza intrattenere una qualche relazione con un altro umano. Come i libri, diceva Umberto Eco, ci forniscono una immortalità al passato, retrospettiva, così il convivere, il riconoscerci come esseri umani, ci fornisce una trascendenza tutta mondana, ossia ci offre un senso dello stare insieme che scavalca i limiti di una vita che, esaminata per quella che è, senza il senso supplementare del convivere, rimane solitaria, povera, sgradevole, brutale e, per quanto lunga possa essere, comunque troppo breve.