Corriere della Sera, 24 luglio 2023
Intervista a Francesco Baccini
«Benvenuta nel libero tirannato di Baccinia. Io sono il dittatore democraticamente eletto e il bassotto è il primo ministro».
Come si chiama?
Sal, perché è una salsiccia su quattro zampe.
Che si fa nel suo reame?
«Cerco di convincere il premier a non mangiare le lucertole, sennò sta male. Qui vivono anche un labrador gigante e una setter fobica».
E quattro oche.
«Un giorno, al fiume, una comincia a seguirmi. Era bellissima. Così sono andato dal mio spacciatore di palmipedi e con 15 euro ne ho comprate due, assieme a un sacco di granaglia: “Stai tranquillo, sono cattive madri”, invece la mia si è messa a covare le uova. Adesso devo stare attento sennò casa diventa Paperopoli».
Baccinia è in provincia di Lecco.
«A Imbersago, un paese attraversato dal fiume Adda, famoso per due motivi: la villa di Massimo Moratti – quindi io che tifo Genoa sto in mezzo agli interisti – e il primo traghetto della storia, progettato da Leonardo da Vinci. Da un anno non naviga più: il barcaiolo ha chiuso, ci rimetteva i soldi con la burocrazia che c’è. Un po’ di tempo fa è arrivato un gruppo di americani, ha visto la chiatta abbandonata ed è tornato a casa scandalizzato. Per questa storia allucinante siamo finiti sul Financial Times».
Come c’è arrivato a Imbersago?
«Mi ci portò una mia ex fidanzata. È un posto meraviglioso con le colline, il fiume, e sta a 30 minuti da Milano. Ci vivo da 25 anni».
Invece, l’amore per gli animali...
«Sono figlio di un voto, nato dopo la morte di una sorellina. Mia madre mi ha concepito quasi a quarant’anni, andò al santuario di San Francesco da Paola: “Se è un maschio lo chiamo Francesco, se è femmina Paola”. Sono nato quattro anni dopo, il 4 ottobre, giorno di San Francesco d’Assisi, protettore degli animali, il mio nome era segnato e anche la mia vocazione: li porterei tutti nel mio giardino. Avevo anche un gatto, ma quando sono entrati i cani ha fatto le valigie e, furbo, si è trasferito dal vicino, professione: macellaio. Sono più Francesco del Papa. Dopo di me è nata una sorella. E... indovini un po’?»
Si chiama Paola.
«Brava. Fa l’anatomopatologa, ha preso da mio padre. A me il famoso talento l’ha attaccato mamma che amava recitare, a detta delle zie, pare fosse un portento da bambina. Un giorno, negli anni 30, si presentò Gilberto Govi e chiese a mio nonno se poteva portare mia madre, quattordicenne, nella sua compagnia. Nonno: “Mia figlia cuce, altro che recitare”».
Che tipo era suo padre?
«Un uomo razionale, preciso, onesto. Somigliava a Joaquin Phoenix, aveva i suoi stessi occhi verdi. È morto quando avevo 15 anni, mi dispiace che non abbia visto quello che ho fatto. Vengo da una famiglia di operai e papà per pagarmi le lezioni di piano che costavano un botto lavorava di domenica, a Natale, a Pasqua».
Francesco Baccini negli anni ’80 «emigrò» da Genova a Milano per fare musica. A Sanremo è andato una volta sola («Nei ’90, con una canzone sui luoghi comuni del festival») ma è stato premiato con due Targhe Tenco. Cantautore imprevedibile, ironico e, dice lui, sottovalutato. Anche criticato: la sua Le donne di Modena è stata accusata di sessismo («Ridicolo, era una presa in giro del gallismo italiano»). A fine settembre uscirà su Amazon Prime il suo docufilm su Luigi Tenco, Tu non hai capito niente. «A 28 anni ero uguale a lui. Arbore, De André e Dalla erano impressionati dalla somiglianza. Fabrizio mi parlava come se ci conoscessimo da duecento anni, ogni tanto mi chiamava Luigi: “Fumate anche allo stesso modo”».
Con Faber eravate molto amici.
«Ci siamo conosciuti perché Dori Ghezzi lo portò al mini-concerto per la presentazione del mio primo disco, Cartoons. Li avevo intravisti dal palco, ma pensavo fosse un miraggio. Invece alla fine della serata Fabrizio mi invitò a cena a casa sua. È iniziata così ed è andata avanti fino alla sua morte. De André non dormiva la notte, io neanche. Facevamo mattina a parlare di qualsiasi cosa, con me rideva molto».
Enzo Jannacci.
«Il numero uno tra i miei punti di riferimento. Tragicomico, il più poeta di tutti, anche se non è riconosciuto perché in Italia l’ironia è di serie B. Mi definiva un errore temporale: “Hai meno anni di noi ma sei dei nostri”. Aveva aperto un locale, La bolgia umana, sempre vuoto. Mi diceva: “Dai, andiamo a mangiare lì, almeno ci saranno due persone».
Lucio Dalla.
«Ero stato invitato a una rassegna in provincia di Avellino con nomi pazzeschi. La sera del mio concerto piove e l’organizzatore mi propone di esibirmi il giorno dopo con Lucio. Ero uno sconosciuto, salgo sul palco e Dalla mi fa: “Bac ora sono c... tuoi”. Io canto due, tre, dieci pezzi e la gente continua ad applaudire. Alla fine mi chiede: “Cosa fai martedì? C’è l’ultimo concerto mio e di Morandi a Urbino. Vieni?». Suonai davanti a duemila persone».
Non è stato facile per un timido come lei.
«Canto con gli occhi chiusi. A scuola per farmi gli scherzi mi eleggevano rappresentante di classe. Durante le assemblee mi nascondevo in bagno per non parlare davanti agli altri».
Ha studiato classica.
«Al mare, da piccolo, mi attaccavo al jukebox, tenevo il tempo con la testa e battendo il piede. A 9 anni, per Natale i miei genitori mi regalarono l’organetto Bontempi e mi mandarono a lezioni di piano. Con un gruppetto di amici avevamo l’abbonamento per i concerti del lunedì, fra loro c’era un tipo serioso, Fabio Luisi, ora è uno dei più importanti direttori europei».
Lei, invece, a vent’anni cantava nei locali di Genova.
«Almeno lì mamma non mi poteva controllare. A casa, quando intonavo qualche canzoncina urlava dalla cucina: “Mica stai cantando?”. Poi cominciai a scrivere i miei brani. Erano strani... Quando ascoltò Figlio unico voleva chiamare lo psicoterapeuta».
A 23 finì al porto di Genova come papà e nonno.
«Camallo per un anno, poi mi spedirono in amministrazione. “Farai carriera”, dicevano. Papà non c’era più, mia sorella studiava, il capofamiglia ero io. Non era la vita che volevo. Pensavo: se rimango qui dentro divento un serial killer. Facevo casini e continuavano a spostarmi da un’ufficio all’altro. Mi misero al centralino. Ma m’annoiavo e iniziai a fare numeri a caso in tutto il mondo: “Hallo, here is Porto di Genova”. Quando arrivò la bolletta del telefono quadruplicata si spazientirono: “Baccini, questa è l’ultima volta, qui non puoi sbagliare”.
Invece...
«Stavo in una stanza, da solo. Il mio compito era, una volta al mese, prendere i tabulati del centro meccanografico e metterli in una macchina che tagliava le buste paga».
Tutto lì?
«Sono durato trenta giorni. Pensavo di aver fatto un lavoro perfetto. Mi chiamò la direzione: “Non ti far vedere per i prossimi venti giorni ci sono diecimila operai che ti vogliono uccidere”. Avevo sbagliato e per la prima volta il Porto di Genova posticipò di dieci giorni la consegna degli stipendi. Ne approfittai, diedi la liquidazione a mamma, le lasciai un biglietto e scappai a Milano con 100 mila lire in tasca, sulla mia Renault 9 a gas, aveva un vetro rotto e un faro spaccato. Vivevo in macchina come un barbone. Suonavo in un locale in cambio della cena».
Alla fine riuscì nel suo intento.
«La prima persona che accettò si incontrarmi fu Mara Maionchi, allora direttore artistico di una discografica, ho fatto X-Factor ante litteram. Era uguale adesso solo un po’ più magra. Poi mi iscrissi a un concorso e firmai un contratto con la Cgd. Ci presentammo in 1.800, rimanemmo in quattro».
Una strada in salita.
«Per farmi incidere un disco mi tolsero il pianoforte e mi trasformarono in un cantante confidenziale. “L’ironia non vende. E tu sei genovese, hai mai visto ridere Gino Paoli o Luigi Tenco?”. Devo ringraziare Gastone Razzi che lavorava in Cgd, capì tutto ma non aveva potere».
La portò a Roma da Vincenzo Mollica.
«Non sapevo chi fosse, entrai nel suo ufficio e lui mi chiese di cantare i miei brani, al pianoforte. Si gasò: “Quando inciderai questo album?”. Io: “Mai”. Mi fece uscire dalla stanza e lo sentii urlare al telefono. Da allora ho avuto la libertà di fare le canzoni che volevo».
Quali errori non rifarebbe?
«Non me ne andrei via dalla major discografica, lì avevo la mia storia, invece ho sparpagliato i miei album in cinque etichette differenti. E non farei Music Farm».
Fu mandato via per una bestemmia.
«In quel periodo avevo subito una truffa gigante dal mio ex manager. Mi sono svegliato una mattina e non avevo più niente. Siccome non ho il file della depressione ho ricominciato daccapo e accettai di andare in tv perché mi offrirono un cachet importante. Dopo un po’ lì dentro pensi che non uscirai più. Ero impazzito. Mi sembrava di fare un viaggio senza ritorno in una navicella che va su Marte con Iva Zanicchi».
E l’infatuazione per Dolcenera?
«È nata perché gli autori mi dicevano: “Sai che parla sempre di te?”. Io manco me ne accorgevo, ma ho finito per crederci».
Suo figlio Michael l’ha ringraziata per i «consigli di vita». Che papà è?
«L’ho conosciuto quando aveva due anni. Non sapevo cosa fare, mi venne in mente mio padre: rideva e scherzava ma metteva i paletti. Scaricava i quarti di bue a mano, se mi dava due schiaffi mi ritrovavo a Palermo, quindi ci pensavi due volte prima di farlo incavolare. È stato il mio modello. Michael lavora in un locale al centro di Milano come bartender e a 25 anni si è comprato la sua prima casa. Sono fiero di lui».