Corriere della Sera, 24 luglio 2023
Spagna, ecco gli scenari possibili
Se la Spagna doveva essere il laboratorio della nuova alleanza tra popolari e conservatori per governare l’Europa, non è andata benissimo. La diga socialista tiene, il centrodestra è lontano dalla maggioranza assoluta.
La sorpresa è clamorosa. Erano sbagliati i sondaggi, erano sbagliati gli exit-poll. Il premier socialista Pedro Sánchez rimonta. I popolari crescono, si affermano come primo partito, ma non sfondano. Vox quasi dimezza i seggi.
La Spagna profonda ha detto no all’accordo tra popolari e conservatori. I socialisti hanno mobilitato i loro territori tradizionali. L’Andalusia, un tempo roccaforte rossa, ora governata dalla destra, si è mossa a favore di Sánchez. Lo stesso è accaduto in Catalogna, dove la sinistra indipendentista di Esquerra Republicana crolla, e anche i separatisti di centrodestra di Junts per Catalunya cedono voti al partito socialista: Barcellona non vuole la destra al governo a Madrid.
Sembra un remake del 2004. Anche allora la destra era nettamente favorita. Ma nelle urne pagò le menzogne sulla bomba alla stazione di Atocha, attribuita ai baschi dell’Eta anche quando ormai era chiaro che i responsabili erano i terroristi islamici.
Stavolta il ventre del Paese ha punito il progetto di svolta conservatrice.
La Spagna del resto è così. La sinistra può crollare nel voto amministrativo, com’è accaduto il 28 maggio scorso. Ma se la destra decide di dichiarare una guerra culturale, di solito la perde. Ancora una volta, gli elettori hanno avuto più paura di Vox che dei separatisti catalani.
Certo, per la sinistra non è un trionfo. Alla fine il sorpasso dei seggi da parte dei popolari c’è stato. Ma i socialisti possono fare accordi in Parlamento con catalani e baschi; i popolari no. E quindi Sánchez ha buone possibilità di restare al governo.
Alberto Núñez Feijóo, il leader del Pp, avrebbe fatto volentieri a meno di dialogare con Vox. Il suo schema era un governo di minoranza, con l’astensione dei socialisti. Ma lo schema prevedeva il crollo di Sánchez. Dentro il Psoe c’è un’anima centrista, disposta a lasciar governare i popolari. Sono i baroni che considerano ancora leader morale il grande vecchio Felipe González, che non è un estimatore di Sánchez. Ma sono gli stessi baroni usciti a pezzi dalle amministrative; al momento nel partito un’alternativa al sanchismo non c’è.
Anche nel Pp esistono due anime. C’è quella di destra, incarnata dalla presidente della Comunità di Madrid, Isabel Díaz Ayuso. E c’è quella centrista, rappresentata appunto da Feijóo. Il candidato premier è stato molto critico con Vox, in tutta la campagna elettorale. Ne ha preso le distanze su molti punti: il centralismo esasperato – Feijóo è presidente della Galizia, una terra che ha un’antica tradizione di autonomia —, il negazionismo sul cambiamento climatico, il rifiuto di riconoscere la violenza di genere. È vero che Feijóo ha tenuto toni duri, a volte aggressivi, in particolare nell’unico duello televisivo con Sánchez, per il quale si è allenato con il demiurgo della Ayuso, Miguel Angel Rodríguez, detto MAR. Tuttavia, è evidente che Feijóo aveva scelto di non inseguire Vox sulla via dell’estremismo, ma aveva tentato di conquistare il centro. Ci è riuscito solo in parte.
La vera questione, ovviamente, non è la corrida – di cui Vox è grande appassionata —, e non è neppure il femminismo. È l’Europa. I popolari hanno un antico legame con la Cdu tedesca: la Germania del resto controlla buona parte del debito pubblico spagnolo. L’interlocutore naturale di Feijóo non è Orbán, non è Marine Le Pen, non è Alternative für Deutschland; è Ursula von der Leyen. La Spagna in questi anni è cresciuta anche grazie all’Europa, il governo socialista ha avuto 77 miliardi di euro del Pnrr (tutti a fondo perduto, per evitare di fare nuovo debito). È chiaro che l’Europa preferirebbe un accordo tra popolari e socialisti; che tuttavia non fa parte della cultura politica spagnola.
Vox esce malconcia dal voto; e alla fine si è rivelata la migliore alleata dei socialisti.
Del resto, il Paese è in piena ripresa economica. Edilizia e turismo, le due leve della crescita spagnola, hanno ripreso a funzionare. L’occupazione è al massimo storico. L’inflazione scende. Eppure l’economia non basta a spiegare la sorpresa di ieri.
Sánchez ha vinto la sua scommessa, ai limiti dell’azzardo. L’uomo ha fiuto politico, come ha dimostrato più volte. Dopo il crollo alle amministrative pareva finito. Così ha deciso di sciogliere il Parlamento: un potere che in Spagna non tocca al capo dello Stato, il re Felipe, ma al capo del governo. E la rimonta è riuscita, visto che il Psoe aumenta i seggi. Non è più il primo partito; ma ha comunque inflitto un duro colpo alle ambizioni della destra.
A questo punto il Pp deve scegliere se tenere la linea centrista, nella speranza di una rivincita. O se spostarsi a destra, per assorbire i voti di Vox, dopo aver prosciugato il serbatoio liberale di Ciudadanos, il movimento che ora non esiste più. Proprio come Podemos, che si è sciolto in Sumar, una coalizione che appunto somma tutte le forze a sinistra dei socialisti: la sua leader, la vicepremier Yolanda Díaz, raccoglie 30 seggi che potrebbero rivelarsi decisivi per confermare l’attuale maggioranza di governo. Anche se un ritorno alle urne è tutt’altro che da escludere.