il Giornale, 24 luglio 2023
Intervista a Matteo Strukul
Matteo Strukul è uno dei più prolifici, e letti, autori di romanzi storici in Italia. Classe 1973, patavino, una laurea in Legge e un dottorato di ricerca in Diritto europeo dei contratti civili, è stato definito lo scrittore più rock d’Italia. E non stupisce perché la chioma lunga, il look che richiama, a seconda delle situazioni, la musica anni Novanta o gli scrittori scapigliati ottocenteschi, aiutano a fare di Strukul un personaggio. Però va detto subito che il vincitore del Bancarella 2017 (per I Medici: Una dinastia al potere) del performer rock, ha soprattutto, la passione maniacale del grande chitarrista, quello che si distrugge sullo strumento.
Lavora a ritmo certosino, piantato in mezzo ad un genere, il romanzo storico, dove sbagliare è facilissimo e tutti ti possono puntare il ditino contro (e se c’è una cosa che la critica italiana fa facilmente è puntare il ditino). E allora abbiamo fatto una chiacchierata con lui per capire come funziona la sua personale officina del romanzo, il suo studio di registrazione della Storia dove dati e saggi vengono distillati per diventare avventura e suspense. Come nel suo nuovo romanzo, Il ponte dei delitti di Venezia (Newton Compton, pagg. 288, euro 9,90) in cui torna a far indagare il pittore Canaletto nella Serenissima dei primi del Settecento, come aveva già fatto nel precedente Il cimitero di Venezia (sempre Newton Compton).
Solo una doverosa avvertenza al lettore, prima di cominciare. Le risposte di Matteo Strukul dovreste leggerle a velocità doppia. Perché quando parla Strukul viene portato come dal vento dei pensieri e, in fondo, già scrive, velocissimo.
Matteo Strukul, perché scrive romanzi storici?
«Ho fatto altro nella vita, ho una formazione da giurista. E sono approdato al romanzo relativamente tardi, e al romanzo storico ancora più tardi... Nel mezzo ho scritto per riviste e giornali, insomma è stato un percorso articolato. È successo piano piano... Però ecco, la radice vera, probabilmente, è che sono sempre stato un lettore seriale. Ho questo ricordo, mia zia che da piccolo mi regala l’Iliade. Quando sono arrivato alla morte di Ettore, a quest’eroe che si sacrifica per la sua città... Basta era cambiato tutto. E così ho continuato a leggere i classici e poi romanzi che per me sono diventati dei modelli. Le illusioni perdute di Balzac, Guerra e Pace, La figlia del capitano di Puskin. E Conrad, tutto Conrad, quel modo particolare di indagare l’animo umano. Ecco questo è stato il background che mi ha lasciato la voglia di provare a fare romanzi che fossero al tempo stesso avventurosi e popolari. Letterari ma adatti al grande pubblico. È così che dopo il Ciclo di Mila, sono approdato al Thriller storico. La svolta del grande successo è arrivata con il ciclo sui Medici...».
Un successo indiscutibile, i suoi libri sono tradotti in più di venti lingue e sono pubblicati in trenta Paesi... E potrei aver perso il conto di qualche lingua e di qualche Paese per la strada.
«In questo ha funzionato bene anche il sodalizio con il mio editore Newton Compton. Fanno esattamente quello che volevo fare io: letteratura a prezzi accessibili. Popolare ma letterario, quel modello ottocentesco che mi piace. E poi c’è la mia agente, Monica Malatesta, non è che lo scrittore fa tutto da solo, c’è un contesto dietro e questo andrebbe ricordato sempre. E ci sono i lettori che mettono il loro immaginario nei miei libri... Io creo dei percorsi narrativi evocativi, ma ogni lettore li completa a modo suo. La scrittura stimola l’immaginario del lettore quando funziona, evoca cose... In questo senso alcuni mi dicono che la mia scrittura è cinematografica. Io mi sforzo di essere teatrale perché il teatro fa immaginare più che vedere. E il romanzo è così quando funziona».
La freno un attimo... -Il momento imbarazzante in cui uno si rende conto di pensare molto più lentamente dell’intervistato Ndr - Ma le molte cose che ha fatto prima, dalla giurisprudenza allo scrivere di musica, come si legano al suo essere scrittore? Le sono servite?
«Sì, ho scritto libri intervista, uno su Massimo Bubola, Il cavaliere elettrico, e uno su Massimo Piviero, Nessuna resa mai, e poi ho scritto per riviste come Buscadero e moltissime testate, compresa la vostra. È servito? Tutto è servito anche lo studio del diritto. Non ho mai considerato come un caso il fatto che grandi scrittori come Goldoni, Gozzano e Stevenson, fossero stati anche degli avvocati. Il diritto e il giornalismo ti insegnano una cosa fondamentale per fare il romanziere e soprattutto per scrivere romanzi storici: fare la selezione dei temi e delle informazioni. Devi per forza gestire una massa enorme di dati e fare delle scelte».
Per il romanzo storico è fondamentale trovare un equilibrio tra fatti e trama?
«Sì. E queste professioni che ho svolto prima mi hanno insegnato che devi darti una direzione, la ricerca va bene ma devi cercare sempre l’efficacia e l’efficienza di scrittura. Il romanzo è vero che dilata ma arriva sempre un momento in cui conta la sintesi. La descrizione infinita non è il mio pane. Io mi reggo sui dialoghi e sulle sequenze d’azione. In questo senso Conrad è il mio faro o anche London. Io cerco di andare verso quel tipo di romanzo».
E poi c’è la grande questione delle fonti. Lei ha scelto un genere in cui non basta la fantasia. Quando si ha a che fare con la Storia è un po’ come scrivere in una gabbia...
«Sono meno chiuso in questa gabbia, per usare la sua espressione, di quanto sia un saggista. Io lo spiego sempre che, a differenza del saggista, io ho come scopo parlare all’anima del lettore, dare delle emozioni. Magari far rivivere le emozioni che potrebbero aver provato grandi del passato. Poi è chiaro: dalle fonti non posso prescindere. Non puoi parlare dei Medici senza leggere gli scritti di Lorenzo de’ Medici, di Machiavelli, di Guicciardini. Devi muoverti tra i fatti e l’invenzione, richiede un certo coraggio... La verità storica la lascio alla storiografia e anche lì non è che tutto sia oro colato».
Comunque, alla fine, ha scelto un genere complicato. Molti scrittori si muovono in ambiti meno complessi, meno vincolanti, e dove non si rischia di trovare qualcuno con il ditino alzato che giudica la verosimiglianza...
«Io alla fine non mi sento di genere... Mi interessa il romanzo popolare e poi sento il bisogno di raccontare l’Italia del passato... Senza essere retorici viviamo in un Paese che da questo punto di vista è una benedizione. Vado a Venezia e vedo le tele di Canaletto. Vado a Roma e vedo la Sistina e piango. Tutto questo non può essere dato per scontato. Sono molti gli scrittori stranieri che sfruttano questi contesti. Fanno benissimo sia chiaro, ma mi sembra assurdo non farlo per uno scrittore italiano e quindi lo faccio. Poi lo giudicheranno il tempo e i lettori se l’ho fatto bene».
Scrive anche molto, lei ha un ritmo produttivo molto veneto, come organizza il suo lavoro?
«Ho la fortuna di essere un full time writer. Quando non sono in giro, lavoro dalle otto alle dieci ore al giorno. Alla mattina scrivo per quattro o cinque ore. Al pomeriggio studio per altre quattro o cinque. Ovviamente ci sono, poi, i festival e le presentazioni o le volte in cui devo andare a visitare i posti di cui poi scriverò. O le volte che semplicemente stacco. Diciamo che la routine che ho descritto vale per circa 300 giorni l’anno».
Non è tantissimo?
«Balzac ha scritto 135 romanzi tenendosi in piedi con un numero di tazzine di caffè impressionanti, con lui non c’è gara... Il fatto è che non mi pesa, alla fine quando ci cado dentro le storie mi divorano. E voglio solo scriverle. Credo che scrivere tanto aiuti anche a scrivere bene. Comunque sono uno che ha anche i suoi modi per farlo».
Rituali di scrittura?
«No, niente di particolare, ma diciamo che sono uno che scrive tranquillo quando è a casa. Non sono uno che apre il computer in aeroporto per intenderci».
Lei è uno scrittore che ha anche un look molto rock, non sembra solo uno stakanovista della tastiera. O no? Ho la sua stessa età e vedendo il suo look ho sempre l’impressione che avremmo potuto incontrarci nei locali hard rock dell’epoca come il Midnight di Milano...
«O al Rolling Stone per i concerti, che adesso ha chiuso. Sì, ho vissuto tutte quelle influenze musicali e me le sono portate dietro anche nel look. Mi sono sempre piaciuti i capelli lunghi. Ma se ci fa caso non è poi un look così diverso da quello di molti scrittori ottocenteschi di quelli che amo e che le ho nominato prima. Così crescendo sono passato dalle camicie a quadrettoni alle tube, ai panciotti e agli orologi con la catena, però tutto si tiene».