il Fatto Quotidiano, 24 luglio 2023
Così Riad s’è comprata l’Expo
Forse l’Arabia Saudita non riuscirà a comprarsi il mondo, come ormai da settimane ipotizzano diversi commentatori occidentali, ma certo è che ha in mano Expo 2030. Un evento a cui lo Stato saudita teneva enormemente, insieme a un altro evento che invece rischia di perdere (il Mondiale di calcio), per sancire, anche a livello internazionale, il trionfo della sua “Vision 2030”, il piano lanciato nel 2016 dal principe ereditario Mohamed bin Salman, dopo aver preso de facto il potere, volto a trasformare l’immagine e l’economia del regno.
Le dichiarazioni di sostegno fioccano e il regno arabo giura ormai di avere 120 voti assicurati, il principale competitor, Roma, ne conta 30, la terza candidata è Busan, in Corea del Sud: essendo 179 i votanti è facile escludere un esito diverso dalla vittoria di Riad, al netto della legittima campagna italiana per tentare di riaprire la partita anche parlando di votazioni aperte.
Ma come ha fatto un regime che fino a pochi anni fa veniva raccontato soprattutto per le esecuzioni pubbliche, la guerra in Yemen, la discriminazione delle donne, l’applicazione della sharìa e un’amministrazione pubblica basata su una visione conservatrice dell’islam, ad accreditarsi presso più di un centinaio di stati stranieri, dalla Francia a Israele fino alla Repubblica Democratica del Congo?
Come si sceglie Expo.
Il luogo dell’esposizione universale è deciso dal Bureau International des Expositions, organizzazione intergovernativa creata nel 1928 per regolare il processo di scelta e supervisionare la realizzazione dell’evento. Un’esperienza che nasceva da esposizioni prettamente europee ed eurocentriche, dopo la grande esposizione di Londra del 1851, ma che oggi conta 179 Stati membri, tutti con diritto di voto (uno per Paese). Le votazioni si terranno a novembre, a scrutinio segreto (motivo per cui a Roma sperano in qualche diserzione da parte saudita): se nessuna delle candidature dovesse arrivare ad avere una maggioranza di due terzi si andrà al ballottaggio.
Vision 2030 e Pif.
Come accennato, Expo serve ai sauditi per la loro “Vision 2030”, un enorme programma economico e politico, quindicinale, che fonda, secondo la comunicazione del regno, su tre pilastri: fare dell’Arabia Saudita “una società vibrante, un’economia fiorente, una nazione ambiziosa”. Nel pratico, cambiare l’immagine del regime, interna e esterna, e in parte dell’economia nazionale, ancora fondata sul petrolio, senza intaccarne il potere e le regole islamiste.
Braccio di questa trasformazione è il fondo sovrano saudita, il Public Investment Fund (Pif) che il pubblico italiano ha imparato a conoscere per gli investimenti nel calcio, che con una disponibilità economica di 700 miliardi di dollari – rifinanziati di anno in anno – è passato dal regolare l’economia nazionale a guardare sempre di più all’estero in 13 settori strategici, dall’energia alle comunicazioni, dallo sport alle materie prime, dall’immobiliare fino ai trasporti e al cibo (e all’acqua).
Gli investimenti.
Il fondo Pif dal 2017 a oggi ha investito in una molteplicità di aziende occidentali, oltre ad aver preso il controllo di diversi asset nazionali. Controlla Lucid, azienda californiana di auto elettriche, AccorInvest, il maggior fondo di investimento in hotel e immobili in Europa, aziende che si occupano di ricostruzioni 3d o di servizi sanitari da remoto, di telecomunicazioni e di grande distribuzione, ha quote di rilievo nei fondi di investimento Blackstone (Usa) e Softbank (Giappone), in Uber, Zoom, Google, Meta, Starbucks, Paypal… Con uno sguardo pure alle rinnovabili e all’idrogeno, anche se il Regno, è stato più volte ribadito, non ha alcuna intenzione di abbandonare il petrolio.
E poi Pif punta a invadere il mercato dei videogiochi: possiede il 10% di Activision e l’8% di Electronic Arts. Per quanto riguarda lo sport invece ha spinto sull’acceleratore proprio in questi mesi: prima l’acquisto del Newcastle United e, questa estate, l’acquisto di diversi fuoriclasse per il campionato di calcio saudita; la creazione di un circuito di golf professionistico ricco e pronto a soppiantare quello preesistente, il tentato assalto alla Formula 1 e al tennis, per ora entrambi falliti ma non abbandonati. L’obiettivo, in entrambi i casi, è il controllo del circuito internazionale. Un ottimo mezzo di propaganda.
Gli stati target.
Nello scegliere in quali Stati investire, nulla sembra essere stato lasciato al caso: gli investimenti internazionali si concentrano su potenze regionali come Russia, Brasile, India, Stati Uniti, Giappone, Regno Unito, Sud Africa, fino alla Francia, divenuta sponsor di Riad per Expo 2030 dopo una lunga serie di commesse, dalle armi fino ai musei. E se anche dinamiche interne al Paese possono minare il sostegno promesso (è il caso del Brasile, che con Lula è diventato meno tenero nei confronti dei sauditi), i soldi già versati e gli affari pesano.
Ma il cuore dell’azione saudita non sono l’Europa o l’America: è il mondo arabo. Nel programma di Pif ha un capitolo a parte, completamente integrato con gli investimenti nazionali. Energia, fabbriche, ospedali, scuole, finanza, banche, supermercati, immobiliare. Un piano di investimenti per il Medio Oriente e il Nord Africa che, in ogni consesso internazionale, vale diverse decine di voti. L’obiettivo dichiarato del regime è, ancora, guidare il mondo musulmano, su cui influisce anche un antico softpower dato dal fatto che La Mecca si trova proprio lì.
I rischi e il mondiale.
Quella che sembra una marcia trionfale sta in realtà mostrando qualche crepa. Bin Salman infatti voleva, anzi vuole anche il mondiale di calcio 2030, e come nel caso di Expo non ha badato a spese: una candidatura congiunta con Grecia (dopo aver sondato senza successo la disponibilità dell’Italia) e Egitto, a spese saudite, per convincere la commissione a concedere un nuovo mondiale nella penisola araba dopo quelli di Qatar 2022: difficile, ma dopotutto l’Expo 2020 si è tenuto a Dubai.
La scommessa sembra però destinata a fallire dopo la candidatura del Marocco, altro Stato arabo e target di investimenti sauditi, con Spagna e Portogallo. Un mese fa Marca , quotidiano sportivo spagnolo, ha annunciato l’intenzione saudita di abbandonare la corsa: fatto non confermato da fonti ufficiali, ma la mancata smentita sembra un’ammissione. Determinanti i dubbi di Grecia e Egitto, che pure avevano offerto una disponibilità preliminare.