Domenicale, 23 luglio 2023
Tutti i miei film che non ho mai fatto
Nella sua vastissima produzione di soggetti per il cinema, Cesare Zavattini ha sempre portato avanti insieme sia il mestiere sia la teoria, il lavoro su commissione e la riflessione estetica. Ma se c’è una costante, in una carriera più che cinquantennale, è sicuramente la tensione verso la sperimentazione, la messa in discussione della forma. In Italia mia, ad esempio, nel 1951, Zavattini scrive un soggetto per un film «radicalmente senza soggetto», da costruire sulla base di un viaggio attraverso l’Italia durante il quale l’autore, accompagnato da un segretario di produzione e almeno da un fotografo, avrà occasione di creare «gli incontri con la realtà» che poi diventeranno la materia del film stesso. Il progetto di Italia mia non è mai stato realizzato: inizialmente avrebbe dovuto girarlo De Sica, poi è passato a Rossellini, poi è diventato una proposta per un ciclo di libri con Einaudi e infine per la televisione. Come tutti gli altri contenuti in Soggetti cinematografici mai realizzati (a cura di Nicola Dusi e Mauro Salvador) è una lettura estremamente interessante non solo in quanto nucleo di idee che poi si diffonderanno nella produzione zavattiniana, ma anche in quanto proposta estetica e progettuale di un artista dotato di una presa fortissima sul suo tempo.
Zavattini amava dire che il suo dramma era avere «la facoltà di inventare un soggetto a sera», ma in generale la sua produttività è stata così frenetica, intensa e ampia – tra letteratura, cinema, teatro, televisione, fumetto, pittura – che quando si tenta di abbracciare il complesso della sua opera si parla spesso di “ecosistema” o di “pianeta”, a indicare un insieme di testi molto diversi per forma, medium, intenzione, ma anche molto sistematici nell’approfondire certi temi, motivi e stilemi che tornano ciclicamente dagli anni 30 agli 80.
Da questo punto di vista “planetario” poco importa che un soggetto sia diventato o meno un film: come scrive Dusi nell’introduzione al volume, alla base della raccolta c’è proprio l’idea di poter entrare nell’ecosistema: l’invenzione di Siamo donne, film collettivo in cui attrici famose si raccontano nella loro quotidianità, è proseguita e approfondita in La cavia, con il quale si intende ricostruire l’ascesa e caduta di un giovane divo modellato su Maurizio Arena: «un film inchiesta in cui l’oggetto non fosse una città, una situazione, ma un uomo, giovane, notissimo... Il dato biografico dovrà coincidere col dato rappresentativo». Per questo progetto, che immagina come il primo di una serie, Zavattini conia l’espressione “cinema della crudeltà”.
I 58 soggetti raccolti da Dusi e Salvador sono stati selezionati tra i circa 160 custoditi nell’archivio della biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, e sottoposti a un rigoroso studio necessario per ricostruirne la versione più recente a partire da un accumulo di fogli dattiloscritti a diversi stadi di elaborazione e note scritte a penna (il lavoro è accompagnato da un’interessantissima risorsa web nella quale si possono vedere le fotocopie dei fogli originali e confrontarne le varie versioni: edizionenazionale.cesarezavattini.it). Ogni testo è accompagnato da una nota filologica e genetica che ne ricostruisce il processo di scrittura e da una nota storico-critica che lo colloca nel contesto del tempo e dell’opera dell’autore. Seguirà un secondo volume, nel quale si riporteranno invece i soggetti realizzati, elaborati con la stessa metodologia. Alcuni di questi testi si leggono come racconti: sia quelli più leggeri, di cui alcuni scritti per Sophia Loren su richiesta del produttore Ponti (Due giorni di follia, La magia di Napoli), sia quelli più intensi e impegnativi, come l’interno borghese sotto il fascismo di Diario di una donna (che è interessante mettere in relazione con il precedente Diario di un uomo). Altri sono invece proposte progettuali, e sono una lettura estremamente interessante proprio per la discussione teorica ed estetica in essi contenuta, come i citati Italia mia e La cavia, oppure come Un minuto di cinema, dove una breve scena – una lite in strada iniziata per una sciocchezza e finita in tragedia – viene ripetuta, rallentata e variata più e più volte fino a espandersi in un intero film. Racconto e teoria sono spesso fusi insieme, come in Tu, Maggiorani, in cui l’attore protagonista di Ladri di biciclette, Lamberto Maggiorani, che dopo il film è tornato a fare l’operaio, viene licenziato e cerca di rientrare nel mondo del cinema, ma trova tutte le porte chiuse e si strugge perché sta infrangendo la promessa fatta a De Sica. Non è necessaria una grande confidenza con lo sterminato corpus zavattiniano per leggere questi testi e anzi, paradossalmente, la loro forza immaginativa potrebbe essere ancora più potente in una lettura libera da binari interpretativi già molto sviluppati.