Domenicale, 23 luglio 2023
Medicina spericolata
Questo libro è un tesoro di storie. Tutte vere, come si premura di dire l’autrice – «o almeno: è vero per quello che possiamo conoscere oggi di vicende avvenute nel passato». Sono scritte in forma ironica e leggera, e raccontano di medici, microbiologi, chimici che hanno praticato esperimenti sul proprio corpo, artefici e cavie contemporaneamente, mossi da una insaziabile passione scientifica. In certi casi il motore è la fama e il successo; in altri, invece, si tratta di giovani ricercatori tenaci e disubbidienti ai loro superiori e al potere accademico, in altri ancora di personaggi un po’ incoscienti che non sempre si rendono conto del pericolo che corrono. Come è riportato in quarta di copertina, «in molti casi non è successo niente. Qualcuno ci ha lasciato le penne. Qualcuno ci ha preso il Nobel. Spesso è così che sono arrivati i “grandi balzi” che oggi fanno di noi una specie longeva, sana, passabilmente felice».
Ecco, credo che queste righe iniziali possano essere sufficienti per far capire il senso del libro.
Va però detto che queste storie non sono narrate in forma aneddotica. Silvia Bencivelli non è alla ricerca del caso curioso, da settimana enigmistica o da “medaglione” di fine Ottocento, non ci vuole sorprendere a tutti i costi, né soltanto divertirci con racconti comici e macabri allo stesso tempo. A un certo punto, ma siamo proprio all’inizio, si rende conto che sta andando in quella direzione, e subito cambia percorso. Scrive: «Ma a raccontarla così si rischia di fare la storia per aneddoti e a darne una rappresentazione lineare, di progresso in progresso, come se si trattasse di una marcia inevitabile e gloriosa verso le meraviglie della medicina attuale. Soprattutto si rischia di dimenticare che non c’è mai il genio che da solo fa la grande scoperta, e un attimo dopo il mondo cambia». Basta leggere Esploratori e germi, Acqua sporca e Vaccini – tre dei suoi capitoli più belli – per accorgersi che queste storie non sono affatto semplici, e che se si semplifica troppo alla fine si resta con un pugno di mosche. Insomma, divulghi ma non spieghi. A riprova del fatto che comunicare la scienza è un mestiere difficile, che non si può improvvisare. Un esempio per tutti: la scoperta della causa della febbre gialla.
La febbre gialla è il primo virus umano a essere isolato (1927). Il vaccino arrivò dieci anni più tardi, ma la lotta per sconfiggerla fu durissima. I tentativi furono numerosi, e il racconto che ne fa Bencivelli è avvincente. Per molto tempo sembrò impossibile che una comunissima zanzara avesse messo ko l’esercito napoleonico (a tal punto che nel 1802 l’imperatore rinunciò alla conquista dei Caraibi e della valle del Mississippi) e ottant’anni dopo che avesse impedito, sempre ai francesi, la costruzione del canale di Panama. Né migliore sorte toccò agli americani durante la guerra del 1898 per il controllo di Cuba. Non è stato facile capire che il contagio non avveniva da persona a persona in assenza di quell’insetto-vettore. La convinzione, antica e saldissima, della diffusione aerea delle malattie (sostenuta a spada tratta dalla corrente dei medici «miasmatici»), fece sì che per tutto l’Ottocento la trasmissione della malattia da parte di insetti venisse considerata un’ipotesi irrilevante, e persino ridicola. In questa fase lunga e conflittuale non mancarono medici – giovani e meno giovani – che, per verificare che la malattia non fosse direttamente contagiosa tra esseri umani, si sottoposero a degli esperimenti che sono stati definiti tra i più disgustosi della storia della medicina. Ci fu chi assaggiò la saliva dei malati più gravi, «chi dormì nei loro letti sudici, si fece alitare numerose volte sulla faccia, si inoculò del vomito nero una ventina di volte attraverso ferite che si inflisse nelle braccia, se lo applicò negli occhi come collirio, ci fece i suffumigi per ore». Dalla comunità medica internazionale furono formulate teorie alternative del tutto plausibili per la scienza di allora. Una delle quali – sostenuta dal grande successo ottenuto dai “pasteuriani” – era che anche nel caso della febbre gialla, come per il tifo e la tubercolosi, l’agente patogeno fosse un batterio. Alla fine dell’Ottocento, la competizione tra medici inglesi e americani (questi ultimi guidati da Walter Reed) produsse un’accelerazione della ricerca. Restava solo un “piccolo” dettaglio da considerare, e cioè che tra le specie viventi solo quella umana si ammalava di febbre gialla, e dunque gli esperimenti potevano essere effettuati solo sugli esseri umani. Se non si voleva ricorrere a persone inconsapevoli (emarginati, disabili e quanti altri) non restava altra strada che i volontari – le cavie – fossero da scegliere tra gli stessi ricercatori.
Qui mi fermo. Non voglio togliere al lettore il piacere di scoprire come si giunse alla vera causa della malattia. Ma non molto diverso è il paesaggio che abbiamo di fronte quando si prende in esame il caso del colera. Arrivato in Europa intorno al 1817 – probabilmente portato dalle grandi navi commerciali provenienti dall’India e dal sud-est asiatico –, dà vita a un dibattito scientifico in cui le domande su come avviene il contagio e su come si può prevenire danno vita a una serie molteplice di risposte in cui pezzi di teorie, poi rivelatesi sbagliate, coesistono e si intrecciano ad altre che poi si sono dimostrate corrette, e dove si capisce che la distinzione tra «contagionisti» e «miasmatici» – ovvero tra chi sostiene che la malattia passi tra un essere umano malato e un essere umano sano e chi, invece, continua a credere che la malattia è provocata dall’aria malsana – non è mai così netta.
Quando sei alla fine, ti viene voglia di tornare a leggere Nemesi di Philip Roth.