Domenicale, 23 luglio 2023
Le lettere di Hegel
Introducendo le sue Lezioni di storia della filosofia, Hegel illustra con chiarezza il rapporto tra l’individuo e la filosofia, definendo anche la differenza tra storia della filosofia e storia politica: «I fatti e gli avvenimenti della storia della filosofia sono (…) di tal natura, da non essere improntati nella loro forma e nel loro contenuto dalla personalità e dal carattere dell’individuo; al contrario di quanto accade nella storia politica, dove l’individuo, grazie alla singolarità della sua indole, del suo genio, delle sue passioni, dell’energia o della debolezza del suo carattere, insomma, grazie a tutto ciò che caratterizza la sua personalità, è il soggetto delle azioni e degli avvenimenti».
Nel caso della storia della filosofia l’individuo non ha dunque alcun rilievo, anzi tanto più si cancella la dimensione individuale, tanto più la storia della filosofia obbedisce alla sua vocazione. Essa non è infatti una «galleria di opinioni», mira alla verità, il suo oggetto è la verità, che si contrappone alla opinione, e «di fronte alla verità l’opinione deve cedere».
Sostenendo queste tesi Hegel si contrapponeva alla Historia critica philosophiae di Jacob Brucker uscita nel 1742, un vero capolavoro nel suo genere, e avviava una concezione della filosofia e della sua storia destinata ad avere una incidenza decisiva negli studi storico-filosofici. Essa toglieva ogni rilievo al filosofo in quanto individuo empirico, e di conseguenza considerava di nessuna importanza la dimensione biografica, e non prendeva quindi in alcuna considerazione i materiali afferenti all’esperienza biografica considerata estranea alla verità della filosofia in quanto tale. Non si interessava quindi dei materiali “privati”: diari, memorie, lettere.
A mettere in crisi questa impostazione è stato Wilhelm Dilthey ai primi del Novecento, rivendicando il valore nella filosofia della individualità e sottolineando, in modo particolare, due punti. Il primo, di ordine generale: l’importanza della giovinezza nell’esperienza del filosofo; il secondo, strettamente connesso a Hegel: l’importanza dei suoi scritti giovanili interpretati – ed è questo il punto da sottolineare – come scritti teologici. Fu infatti uno scolaro di Dilthey a pubblicare nel 1907 gli Scritti teologici giovanili di Hegel, destinati, anch’essi, ad avere grande fortuna nelle interpretazioni hegeliani del Novecento – anche in Italia, ma soprattutto in Francia. Basta pensare a Alexandre Kojève.
Mettere al centro della ricerca le lettere, o materiali «privati» è dunque un gesto filosoficamente assai preciso, non è una scelta di carattere erudito, specie quando si tratti di filosofi. Vuol dire considerare la dimensione biografica non un accidente o qualcosa di secondario o filosoficamente privo di valore, e dare quindi un altro rilievo – in senso filosofico – all’individuo, alla individualità: due termini, va sottolineato, non convertibili, in modo immediato, l’uno nell’altro. E questo naturalmente vale anche per chi studia Hegel.
Delle sue lettere sono state pubblicate varie edizioni fra cui spicca quella del 1972 per i tipi di Laterza curata da Eugenio Garin. Dopo il 1972 è uscito in Italia l’Epistolario, I, a cura di Paolo Manganaro, presso Guida nel 1983, che però si ferma al secondo volume, pubblicato nel 1988, sempre presso Guida a cura di Manganaro e di Giuseppe Raciti. Viene ora pubblicata una nuova importante edizione delle lettere hegeliane, a cura dello stesso Raciti. Primo volume di un progetto assai ambizioso, essa è introdotta da un saggio assai efficace e appassionato nel quale Raciti chiarisce i termini genuinamente filosofici della sua impresa, sottolineando in modo convincente l’importanza, nell’opera, della scrittura.
Alla base di questa affermazione c’è la persuasione – assai giusta – che il rapporto tra uomo e opera non possa essere risolto individuando nell’opera ’pubblica’ il luogo della sua piena e definitiva risoluzione, perché la vita da cui essa nasce è più larga e più complessa, e la scrittura – a tutti i livelli, pubblici e privati – è un momento decisivo della connessione tra filosofia e vita: «queste pagine – scrive Raciti concludendo la sua Introduzione –, fatte non della sostanza dei sogni, ma del tempo, hanno lo stesso potere di ridurre il lavorio filosofico ai suoi termini essenziali: scrittura e vita. Sì, perché – scrive – il punto, qui, è proprio questo, che la filosofia vive, e vive di scrittura, ma nel senso che la scrittura è ancora, oppure di nuovo, azione». Lavorare sulle lettere di Hegel vuol dire dunque «ritornare a sperimentare il momento sottile, sfuggente ma preciso, in cui il concetto si avvita al reale e il reale al concetto». In altre parole significa afferrare in presa diretta il rapporto tra filosofia e vita, cogliendolo attraverso l’esperienza decisiva della scrittura, che è, in quanto tale, effetto e apertura alla vita: appunto azione. Le lettere non sono dunque, come si accennava sopra, materiale erudito, «privato», e quindi filosoficamente irrilevante; al contrario, sono il luogo in cui il nesso tra filosofia e vita, espresso dalla scrittura, si rivela con massima potenza ed intensità – potenza filosofica si intende. Ci sono domande strettamente filosofiche, cui – come dimostra Raciti – solo le lettere possono rispondere. Ad esempio: che opera è la Fenomenologia?’.
In questo volume, come Raciti sottolinea fin dalle prime righe della sua introduzione, sono pubblicate solo le lettere di Hegel, sia pure con molte eccezioni: Schelling, Hölderlin, Goethe. Ma questa scelta deriva da un motivo preciso: «queste lettere – scrive Raciti – devono precisare meglio il pensiero, non la formazione accademica di Hegel». Vogliono cioè contribuire a far «comprendere da un’altra angolatura, e sarebbe a dire meglio, la parola di Hegel». Scrittura filosofica, hanno un obiettivo filosofico. E perciò il volume inizia con le lettere di Stoccarda e Tubinga e termina con quelle da Jena, perché è a Jena – scrive Raciti – che «nasce e si struttura il più significativo sistema di pensiero dell’epoca moderna».
Varrebbe la pena di citare molti luoghi di queste lettere straordinarie. Mi limito a ricordare la parole, bellissime, della lettera a Zellmann del 23 gennaio 1807: «La nazione francese, uscita dal bagno della Rivoluzione, si è liberata non solo di molti istituti che serravano lo spirito umano al modo di scarpe fanciullesche, e che pertanto gravavano su di lei e sulle altre nazioni come ottuse catene, ma ha sottratto anche l’individuo al timore della morte e al potere della vita ordinaria, che il mutamento di scenario ha privato di ogni ausilio interiore. È questo che le dà quella grande forza di cui fa mostra nei confronti delle altre nazioni».