Domenicale, 23 luglio 2023
I numeri per capire il potere cinese
Quella cinese è la più antica e duratura costruzione politica statale ancora oggi esistente. La sua durata bimillenaria è ragguagliabile alla lunghezza degli imperi romani di Occidente e di Oriente, messi insieme. Nonostante ciò, la storiografia occidentale si è scarsamente interessata alle leggi del suo sviluppo, accontentandosi della nota tesi del sociologo e sinologo tedesco Karl August Wittfogel sugli imperi asiatici come imperi idraulici (Il dispotismo orientale. Una indagine comparata del potere assoluto, 1962).
Il professore del “Department of Government” dell’Università di Harvard Yuhua Wang, già autore, nel 2015, di un libro su Tying the Autocrat’s Hands: The Rise of the Rule of Law in China (Cambridge University Press), pubblica ora questo mirabile volume che ricostruisce il modello di sviluppo dell’impero cinese dal 600 agli inizi del 1900 con un’indagine nella quale confluiscono la modellistica della scienza politica, le analisi documentali della storiografia e la comparazione.
L’impero cinese non è soltanto durato duemila anni, ma ha avuto anche dinastie che, nel secondo millennio, sono durate circa tre secoli. Lo studio della formazione e dello sviluppo dell’impero, per Wang, pone il «dilemma della sovranità»: chi rafforza lo Stato, può anche provocare rivolte contro il governo.
Wang formula un modello generale, che applica alla Cina. Osserva che la forza degli Stati è assicurata dal radicamento sociale delle loro élites e garantita dai rapporti tra élites al centro e tra centro e periferie, e dalle élites con gruppi sociali sparsi geograficamente. Meno sono forti i due legami, al centro e tra centro e periferia, meno forte è la costruzione statale. Quindi, vi possono essere imperi forti, ma di breve durata; deboli, ma di lunga durata. Bisogna chiedersi come viene assicurato il difficile equilibrio tra il rafforzamento del motore dello Stato – la burocrazia – e la durata di chi governa, e quello altrettanto difficile tra il governo e il suo incardinamento sociale.
Dopo un rapido esame del periodo che va dal 200 a.C. fino al 200 d.C., Wang esamina le tre fasi che ha attraversato l’impero cinese. La prima va dal 618 al 907 (epoca Tang) ed è quella del rafforzamento dello Stato, grazie ad un’oligarchia legata a gruppi sociali periferici. La seconda va dal 960 al 1644 (dinastie Song e Ming) ed è quella del mantenimento dello Stato, grazie ad una “partnership” tra Stato e società, più duratura, ma più debole. La terza è quella che va dal 1644 al 1911 (dinastia Qing), ed è quella che vede l’indebolimento dello Stato con la costituzione di poteri satelliti, ed è di breve durata. Al centro di questa storia, a partire dal secondo millennio, vi è il meccanismo di reclutamento della burocrazia mediante esami competitivi, che sostituiscono il dominio dell’aristocrazia e dei militari, e introducono la meritocrazia. Viene così trasformata l’élite, nella transizione tra la dinastia Tang e quella Song, si costituiscono reti di parentele elitarie, mentre alla meritocrazia si accompagna una buona dose di patronato politico.
Ogni capitolo di questo libro è fondato su un’analisi empirica svolta dall’autore sulla base di ricerche originali, che riguardano le ribellioni interne, più numerose dei conflitti esterni, il potere impositivo, i dati biografici, le reti familiari e clientelari, le iniziative collettive delle élites. Queste indagini sono compiute mediante l’uso di dati tratti dall’economia, dall’antropologia, dalla meteorologia, con grande inventiva, fino ad usare come fonte gli epitaffi sulle tombe, che ricostruiscono le genealogie familiari.
Ma questo libro non fornisce soltanto un contributo alla comprensione dello sviluppo dell’impero cinese, suggerisce anche nuovi metodi per studiare il processo di costruzione statale, partendo dall’avvertenza di non usare il modello eurocentrico, suggerendo di tener conto dei rapporti tra strutture sociali ed élites, tra centro e periferia, tra potere e durata, applicando una combinazione di metodologie storiografiche e di metodi delle scienze sociali. Divengono così importanti le origini sociali dello Stato e la struttura sociale delle élites, lo sviluppo non lineare delle istituzioni, l’affermazione di poteri forti, ma di breve durata, accanto a quelli duraturi, ma deboli.
La Cina è al centro dell’utilizzazione di questo modello, che include le due dimensioni, quella sincronica e quella diacronica. Ma Wang, nell’ultimo capitolo, considera, con gli stessi criteri, l’evoluzione delle strutture politiche in Africa, nell’America Latina e nel Medioriente.
Questo importante e innovativo contributo allo studio della storia dello Stato suggerisce di non considerare solo la tradizione europea occidentale, per poi annoverare quella asiatica tra le tradizioni derogatorie o eccezionali, come aveva fatto Wittfogel, ma di considerare in un quadro unitario l’evoluzione dello Stato, pur nella divergenza tra Occidente e Oriente, quella divergenza che nacque con la fine dell’impero romano (che dette luogo a un gran numero di piccoli regni), mentre la Cina, sopraggiunta più tardi, è riuscita ad assicurare più lunga durata a un governo centrale per merito dei legami con i gruppi locali, sopravvivendo come un corpo politico generale.