il Fatto Quotidiano, 23 luglio 2023
Lunga intervista a Claudio Simonetti
Claudio Simonetti, per Profondo Rosso voi Goblin foste preferiti ai Pink Floyd.
Dario Argento pensava pure ai Deep Purple. Aveva già ipotizzato i campioni dell’hard rock per la colonna sonora di Quattro mosche di velluto grigio, che era la storia di un batterista. Alla fine aveva scelto Morricone.
Non un ripiego.
Ma i Deep Purple gli erano rimasti in testa. Li omaggiò cripticamente nel titolo del film. In inglese Deep Red.
Però prese voi Goblin.
Il nome venne contestualmente. Carlo Bixio produceva la mia band, Cherry Five, che suona malissimo. Bixio disse ad Argento e Daria (Nicolodi): “Ma quali Pink Floyd, Deep Purple o Genesis. Venite a sentire i miei ragazzetti”. A Daria piacemmo: “Dario, prendili”.
E voi a darci sotto.
Un giorno, in una mia cantina adibita a studio all’Eur, misi insieme il tema di Profondo Rosso. Milioni di copie, quindici settimane in testa alla hit-parade.
(Claudio Simonetti è una star da dietro le quinte, è uno di quegli artisti con più successi che fama: è lui, insieme ai suoi Goblin, ad aver realizzato colonne storiche famose nel mondo; è lui ad aver contribuito all’ascesa della musica dance degli anni 80. Ed è sempre lui l’autore, o il colpevole, di uno dei tormentoni eterni e presenti in ogni latitudine festivaliera: il “Gioca jouer”. Suo padre era Enrico Simonetti).
Come lavoravate con Argento?
Su Profondo Rosso gli mandavamo i temi e lui li montava su scene già girate. Per Suspiria andavo sul set.
Paura?
Macché, sono le musiche violente o i rumori spaventosi a creare la suspense. Se vedevo l’attore in veste da morto, insanguinato, poi ci andavo a prendere un caffè al bar. Piuttosto, porca zozza…
Che c’è?
Nella mia carriera ho incontrato chiunque, star pazzesche, e non ho neanche una foto; giusto una con Sordi e Gassman vestito da Brancaleone.
Elenco dei rimpianti.
Andai al festival di Tokyo a dirigere l’orchestra per Raffaella Carrà, che avevo conosciuto al tempo del debutto in tv con mio padre e Nino Ferrer sul varietà Io, Agata e tu. Più tardi avevo fatto amicizia con Boncompagni, erano i tempi di Discoring.
Così in Giappone…
La mia vicina di stanza era Donna Summer. Una dea. Prendevo l’ascensore con lei e la sua deliziosa bambina. Al massimo strappai un autografo.
Lei a quel punto era passato dal progressive dei Goblin all’italodance degli Easy Going.
Gli anni 70 erano formidabili per il rock, ma devastanti dal punto di vista politico-sociale. Alla fine del decennio i sessantottini erano cresciuti. Volevano divertirsi. C’era un boom. Tutti in discoteca. Gli Ottanta erano veramente come li descrivono i Vanzina. Jerry Calà imperversava.
Lei a Roma furoreggiava nei locali.
L’Easy Going, il Gilda, il Jackie O’. Helmut Berger veniva a ballare in consolle con me e il dj Paul Micioni. Vedevi Rudolf Nurejev e Omar Sharif. Era sempre pieno. Il rock era morto, al tempo del sequestro Moro. Tutti erano presi dalla febbre del sabato sera. I rivoluzionari avevano tirato i remi in barca. Divennero yuppies.
E il Maestro Simonetti tirò fuori per Cecchetto Gioca Jouer.
Sì. Cecchetto vuol far pensare che sia un’idea tutta sua, invece si limitò a dirmi: “Ho intenzione di fare un pezzo con tutti i comandi, dormire, salutare, starnuto”. Andai a casa e tirai fuori questa tarantella. Lui fu riconfermato a Sanremo e lo utilizzò come sigla coi ballerini che attraversavano la città ed entravano all’Ariston.
Un tormentone.
Recentemente sono andato a farmi curare da una giovane fisioterapista. Mi fa: “Perché tutti la chiamano Maestro?”. E io: “Ho scritto colonne sonore per Dario Argento”. “Chi è?”. Io insisto, ma niente. “Gioca Jouer lo conosci?”. “Certo!”.
L’oblio del tempo è crudele.
(Cambia tono) Dario ci è rimasto male per non essere mai stato apprezzato in patria. Prendendo il David di Donatello alla carriera ha detto: “Vi siete ricordati forse un po’ tardi…”. Io l’anno scorso sono andato in Spagna al festival più importante del mondo del genere horror, è stato come vincere l’Oscar. In America tutti sanno di me. A Hollywood John Carpenter, quello di Halloween, mi ha detto: “Simonetti, ti ho copiato tutte le musiche!”. E io: “Hai fatto bene”.
Torniamo alla galleria delle foto mancate…
Edwige Fenech.
Impossibile non innamorarsi.
Così bella e simpatica da non sembrare neppure umana. Girava con mio padre Grazie nonna, una parodia di Grazie zia di Samperi. Nel film papà era il genitore di quel debosciato di Giusva Fioravanti.
Suo padre Enrico era una star della Rai anni 60…
Grazie a lui li ho conosciuti tutti: Mina, Celentano, Bramieri, Chiari… (resta zitto) negli anni Novanta lavoravo in un programma con Magalli, Pronto, è la Rai?. Ogni giorno venivano, come ospiti, questi personaggi del recente passato, Sandra e Raimondo e tanti altri. Quasi tutti si ricordavano di me bambino, la Zanicchi dice di avermi tenuto sulle ginocchia.
Con suo padre avevate vissuto in Brasile.
Ce ne siamo andati quando avevo 11 anni. Lui laggiù era un vero mito della televisione. Ancora tanti anni dopo Sergio Mendes mi parlava di Enrico.
Morto purtroppo presto, a 54 anni, nel ’78.
Per fortuna è riuscito a vedere il mio successo.
Le aveva dato una mano?
Eccome, grazie a lui cui avevamo firmato con la Cinevox e fatto suonare nel soundtrack, da lui composto, per lo sceneggiato tv Gamma; (sorride) è stato il suo disco a scalzarci dal primo posto in classifica.
Essere “figlio di” l’ha aiutata…
Non funziona mai, per nessuno. Papà lo sapeva e teneva ben distinte le nostre storie. Una volta venne a trovarmi mentre ero impegnato con il servizio militare: solo lì il resto della truppa lo scoprì.
I Goblin erano mosche bianche nell’area prog. Un successo ineguagliato.
Avevo mollato la chitarra e ripreso lo studio delle tastiere per “colpa” di A Whiter Shade of pale dei Procol Harum. Ma il prog era un campo aperto. I New Trolls avevano ottenuto successo con una canzone semplice, Quella Carezza della Sera. I Pooh tirarono fuori un intero album progressive, Parsifal.
Voi avevate fan devotissime.
Quando suonavamo in Campania non mancava mai la giovanissima Barbara D’Urso. Carmelita. Trascinava le sue amiche.
Poi però si fidanzava con Miguel Bosè e Vasco.
Vasco sì, le ha pure dedicato canzoni famose. Ma con Bosè direi proprio di no… (cambia discorso) anche una giovanissima Simona Ventura era dei nostri (sorride); sia ben chiaro, fan e basta.
Si è sposato con Anna Kanakis.
Ancora mando a quel paese il mio amico Albertino Marozzi.
Che c’entra Marozzi?
Dovevo andare a Palermo, Alberto mi convince a dirottare su Acireale. C’era un evento. Conosco Anna. Ci innamoriamo all’istante. La rividi a Milano, poi Roma. Era agosto. In autunno ci sposammo.
Bene, no?
Durò un anno e quattro mesi. E dire che mi avevano avvisato.
Chi? Quando?
Durante le nozze. I miei testimoni erano Boncompagni e Isabella Ferrari. Da dietro una colonna Magalli faceva tintinnare le chiavi della macchina. Come a dirmi: “Sei ancora in tempo…”.
Formidabile Magalli.
Un gruppo di amici in cui la goliardia e lo scherzo erano le stelle polari: Giancarlo e Gianni erano tremendi, ma ce n’era un altro che… (resta zitto).
Il nome!
Mai! Però, ecco…
Ecco cosa?
Beh, tirava fuori il membro e quando arrivava una cantante lo poggiava sul mixer. O sulla spalla del malcapitato fonico. Sono depositario di aneddoti inenarrabili.
Dei tanti che ha conosciuto, chi l’ha sorpresa, dagli esordi al successo?
Renato Zero. Lo vedevo nei “collettoni” di Rita Pavone, con le sorelle Bertè. Loredana ha preso più tardi, quasi per gioco, la strada del canto. Mia mostrava già le sue doti. Zero abitava alla Montagnola, io a piazza dei Navigatori, lo vedevo spesso. C’era chi lo prendeva in giro per la somiglianza con Bowie. Mai avrei pensato che un giorno avrebbe riempito gli stadi.
È stato bravo.
Bravissimo. I primi spettacoli li faceva come supporter dei Goblin. Ho arrangiato per lui tre pezzi su La coscienza di Zero: Mamma, No mamma no e la cover de È la pioggia che va. Andavamo in macchina alla mitica Rca sulla Tiburtina, al bar incontravi chiunque: Baglioni, Morandi, Dalla, Venditti. Un altro mondo.
Lei che ventenne era?
Non un ribelle. Mi tenevo alla larga dalla politica. Capellone, rockettaro. I tempi felici dei festival musicali a Caracalla o Villa Pamphilj. Andai a vedere i Pink Floyd al Palaeur, c’erano gli autoriduttori che volevano entrare gratis, la polizia distribuì manganellate a tutti. Ci inseguirono fuori per centinaia di metri.
Che fece con i primi guadagni dei Goblin?
Comprai una Triumph Spitfire. Usata ma tenuta bene, direbbe qualcuno. Una spider niente male. Ma io sono un biker. L’altro giorno sulla mia Harley ho fatto Roma-Trasimeno e ritorno. 450 km, alla faccia del caldo. Sono giovane dentro, sono uno che va ancora in tour, soprattutto negli Stati Uniti.
Una celebrità.
In Italia no. Se non vai in tv sei morto. Una signora mi ha detto: “Ma lei suona ancora?”.
Però nel coté artistico è rispettato e temuto. Per il remake di Suspiria Guadagnino chiese la nuova colonna sonora a Thom Yorke.
Poraccio Thom.
Prego?
Ma sì. Io amo i Radiohead, però capisco il dramma di Yorke nel confrontarsi con le nostre musiche originali. Infatti non ci pensò neppure a riprodurre il tema di Suspiria. Su You Tube qualcuno ha caricato le scene di Suspiria con sopra i Goblin. Un’altra cosa.
Lei chi è?
Una persona realizzata. Avrei potuto fare tante altre cose nella vita, ma essere arrivato a 71 anni da musicista, pur tra alti e bassi, non capita a tutti. Ho cominciato sedicenne nei night, ho suonato il prog, i film de paura, la dance. Ho lavorato con Riz Ortolani e Stelvio Cipriani. Se poi la fisioterapista ricorda solo Gioca Jouer, amen: l’importante è che mi rimetta in sesto il ginocchio.