il Fatto Quotidiano, 23 luglio 2023
Lavitola ricorda Berlusconi
Valter Lavitola è di ottimo umore. Uno dei più “versatili” faccendieri di Silvio Berlusconi – oggi titolare di un bistrò di pesce a Monteverde, quartiere della borghesia romana – mostra sul tavolino del suo ristorante quattro paginette dattiloscritte con in calce la firma e la carta d’identità dell’ex Cavaliere. L’ultimo colpo di teatro? “In eredità ha lasciato qualcosa anche a me”, esulta. Niente soldi, ma un interrogatorio difensivo che Berlusconi avrebbe dettato a febbraio, pochi mesi prima di andarsene, ai suoi avvocati e a quelli dell’ex direttore dell’Avanti. Grazie a questo verbale, Lavitola riteneva di poter aprire un’istanza di revisione della sentenza di condanna per la tentata estorsione proprio nei confronti dell’ex premier, andata in giudicato nel 2013: poiché in quelle pagine B. (chiaramente) negherebbe l’estorsione, Lavitola sperava di poter ribaltare l’esito del processo. Tutto in fumo: la Corte d’Appello di Roma ha giudicato inammissibile l’istanza, a Lavitola resta l’ultimo appiglio della Cassazione. Ma al di là delle tumultuose vicende giudiziarie di quest’uomo, protagonista di pagine oscure e notevoli della Seconda Repubblica, il verbale firmato da B. è un pretesto per riaccendere una luce sull’amicizia da romanzo con l’ex faccendiere.
Bel regalo le ha fatto Berlusconi. Quattro pagine arrivate con anni di ritardo. Non era meglio un pezzetto di eredità materiale?
Per me queste pagine sono il risarcimento di una grande ingiustizia che avevo subito. So che voi non riuscite a immaginare un dono diverso dai soldi, da uno come Berlusconi. Ma per me è così.
Lei fu condannato anche perché Berlusconi, all’epoca, si avvalse della facoltà di non rispondere, non fece nulla per tirarla fuori dai guai.
Fu la prima cosa che gli rinfacciai quando lo rividi, nel 2016, dopo essere uscito dal carcere. Lui rispose che non era vero, io gli feci leggere la sua dichiarazione a verbale e rimase basito. Gli chiesi di rimediare, di dire la verità in un interrogatorio difensivo. Mi promise che l’avrebbe fatto subito.
Invece quel documento le è arrivato a poche settimane dalla sua morte. Si è chiesto perché?
Ho la mia idea su come si sono comportati gli avvocati di Berlusconi, ma se gliela dico sono passibile di querela. Agirò in altra sede.
Lei nel 2016 esce dal carcere, dove era finito per il tentativo di estorsione a Berlusconi mentre era latitante. Appena mette piede fuori, va subito ad Arcore. Un fatto curioso.
Non a casa sua, ma in un alberghetto dietro l’angolo. Sono stato per pochi mesi, da dicembre 2016 a febbraio 2017. Avevamo lunghe riunioni quasi quotidiane.
Di cosa parlavate?
Io volevo ripartire con le mie attività e gli chiedevo sostegno per una serie di progetti in Africa e Sud America. Si era reso disponibile per darmi una mano e presentarmi dei partner imprenditoriali.
Il circolo di persone vicine a Berlusconi non doveva essere entusiasta della frequentazione.
Ad Arcore ho incontrato solo una volta Confalonieri, mentre ero in cucina a mangiare con il cuoco, Michele. Che ci vedessimo lo sapevano tutti. Berlusconi mi dava appuntamento verso mezzanotte, era un po’ come se volesse nascondermi. Era stanco, aveva fatto da poco l’operazione al cuore, le mie richieste erano stressanti. A febbraio decise che a gestire le nostre questioni sarebbero stati suoi avvocati di fiducia.
Che però non lo fecero.
No.
Lavitola, lei per Berlusconi si è sporcato davvero le mani: trovò il documento sulla casa di Fini a Montecarlo, fu mediatore della compravendita di parlamentari, conosceva bene Tarantini e il giro di escort. E chissà quante altre ancora.
Non sono un santo, come non lo era lui. Forse sono ancora meno santo di lui. Ma la gran parte dei 23 procedimenti che sono stati avviati su di me, in pochi mesi di indagini, sono stati archiviati. La compravendita era un fatto reale, anche se è stata prescritta. La questione di Fini pure è vera, ma non era un reato.
E si fa bastare questa testimonianza tardiva per perdonare a Berlusconi tutto quello che le ha fatto passare?
Mi ha anche dato tanto. In uno dei primi interrogatori in carcere, mi fu detto a verbale, o forse fuori verbale, che se avessi raccontato qualcosa su Berlusconi, io sarei uscito e lui sarebbe entrato. Mi è passata in mente la scena di lui in galera a quell’età, un uomo di quel livello. Avrei potuto raccontare qualsiasi favola per farlo arrestare, ma non ebbi il coraggio. L’uomo non è fatto per la cattività.
Lei quanto è stato in carcere?
Circa quattro anni. Ho avuto una serie di condanne e di mandati di cattura che si cumulavano in continuazione. Il giorno della scarcerazione, quella vera, stavo leggendo un libro di Wilbur Smith, il secondino mi disse di scendere, io gli risposi: “Aspetta, finisco di leggere”. Ero convinto che fosse qualche altra notifica, invece grazie a Dio dovevo uscire davvero.
Se avesse “cantato” quegli anni se li sarebbe risparmiati.
Mi mancò il coraggio, oggi non me ne pento.
A lei questi quattro fogli, a Dell’Utri invece ha lasciato 30 milioni.
In una delle prime chiacchierate ad Arcore, nel 2016, mi disse questo: “Valter, sai bene anche tu che ti sarebbe bastato raccontare una qualunque balla su di me per tirarti fuori da tutti i tuoi casini. Se vale per te, figurati per Marcello. Ma tu hai le tue attività e hai 30 anni meno di me e di lui. Tutti i miei collaboratori storici sono diventati ricchi e potenti. Ad oltre ottant’anni, Dell’Utri è l’unico che ha solo debiti e avvocati da pagare”.