Domenicale, 23 luglio 2023
Le lastre di Goya
Sul far della sera lasciava le ampie stanze del suo atelier di pittura, dove eseguiva ritratti su commissione soltanto per i nobili della corte madrilena, per gli alti prelati e per i ricchi mercanti – «colui che desidera qualcosa da me mi cerca – confidava all’amico Martín Zapater – e io mi faccio desiderare di più; se non è un personaggio di alta posizione sociale, o con raccomandazioni di qualche amico, non farò più nulla a nessuno» – scendeva le scale, entrava nello scantinato adibito a officina e qui, nella penombra, tra odori di gomme, lacche, colla di pesce, bitume di Giudea, fuochi sempre accesi e vapori acidi, creava solo per sé stesso.
Ai garzoni di bottega chiedeva di predisporre tutto in bell’ordine: lastre di rame levigate e pulite da eventuali macchie di grasso, come quelle lasciate dalle impronte delle dita; vernici preparate mischiando resina e cera; sego; bastoncini di nerofumo; bacinelle con acqua forte (acido nitrico diluito); bacinelle vuote e brocche d’acqua fresca in quantità; panni morbidi, matite appuntite; inchiostri, polveri di quarzo o sabbia, vari strumenti per incidere il rame (mezzelune, raschiatoi, brunitoi, bulini); fogli di carta già a misura e torchio pronto all’uso.
Per lavorare comodamente anche nella semi oscurità si era confezionato un cappello/lampadario, sulla cui tesa larga aveva applicato tante candeline; una volta accese si metteva all’opera con gesti lenti, precisi, quasi solenni, come stesse celebrando una liturgia sacra o un rito magico.
Tagliava con mano decisa le lastre di rame in piccole forme rettangolari, poi ne prendeva una alla volta – con garbo, perché il rame è sottile e delicato – l’adagiava su una piastra di metallo più resistente e applicando il tutto a caldo – su un fornello acceso – la ricopriva di vernice, spalmando l’impasto di cera e resina con il pennello. Quindi sfregava tutta la superficie con un pezzetto di nero di carbonio (nerofumo), la faceva raffreddare immergendola in una bacinella d’acqua e la metteva a riposo. Sedutosi al tavolino, davanti alla lastra pronta per essere incisa, si dimenticava di avere fame, sete, freddo, caldo, del tempo e dello spazio. Non era più a Madrid, pittore di corte nominato da Carlo IV di Borbone nel 1786; non era più l’uomo afflitto fin dal 1792 da una sordità invalidante che lo aveva colpito a Cadice, nell’anno del suo 46° compleanno e neppure il direttore della Reale Accademia di San Fernando, la più prestigiosa istituzione spagnola dove da ragazzo aveva tentato per ben due volte, senza successo, di essere ammesso. Era semplicemente Francisco Goya. Senza maschere, in dialogo con la propria coscienza, impugnava il bulino, tracciava il disegno sulla vernice con la stessa scioltezza con cui avrebbe disegnato sulla carta e metteva a nudo il rame che poi avrebbe inchiostrato. Per ottenere effetti pittorici e varie sfumature di grigio l’artista interveniva sullo stesso rame già inciso con altri passaggi di morsure a vernice molle o all’acquatinta.
Proprio le lastre di rame – cioè le matrici originali da cui Goya trasse, oltre duecento anni fa, le sue celeberrime acqueforti – sono forse la parte più segreta, sconosciuta e preziosa del suo lavoro di incisore. Entrarono a fare parte del patrimonio della Reale Accademia di Belle Arti di San Fernando di Madrid tra il 1803 e il 1870. L’artista ne curò l’intero procedimento calcografico per un totale di 228 lastre oggi conservate alla Calcografía Nacional di Madrid, una collezione importantissima formata dalle serie delle Pinturas de Velázquez (dieci lastre eseguite nel 1778 copiando i ritratti equestri di Velázquez a Filippo III, Filippo IV e Isabella di Borbone), dei Caprichos (80 lastre incise tra il 1796 e il 1798), dei Desastres de la guerra (83 lastre incise all’acquaforte e all’acquatinta tra il 1808 e il 1814 in cui illustrò in presa diretta gli orrori dell’invasione napoleonica), dei Disparates (Proverbios o Nonsense, 22 lastre eseguite tra il 1815 e il 1823) e della Tauromaquia (33 lastre sulla corrida pubblicate tra il 1815 e il 1816).
Maestro dell’arte incisoria, Goya aveva studiato a lungo le acqueforti di Rembrandt e soprattutto di Giovanni Battista Piranesi, incisore veneto conosciuto al culmine della sua fama a Roma, durante il viaggio in Italia compiuto dallo spagnolo tra il 1770 e il 1771. Nell’Urbe Goya si era avvicinato anche ai pittori Hubert Robert e Johann Heinrich Füssli che – presenze oscure nel secolo dei Lumi – contrastavano gli ideali estetici del Neoclassicismo preannunciando la nuova sensibilità romantica.
Formidabile disegnatore, Goya aveva sviluppato uno spiccato talento nello scolpire con la luce immergendo e trattenendo la lastra nell’acido per ottenere scavi più o meno profondi e quindi chiaroscuri più o meno accentuati. Una finezza di dettagli che, col passare dei secoli e delle successive ristampe, i rami rischiavano di perdere. Tra il 1872 e il 1981 le 228 lastre furono perciò sottoposte a un trattamento di bagni galvanici che conferisse maggiore durezza al rame e permettesse di tirare un numero di stampe superiore; tuttavia gli strati di nichel e le cromature aggiunte nei decenni avevano reso ormai illeggibili le matrici originarie. Si rendeva necessaria un’imponente campagna di restauro, ma come rimuovere l’acciaiatura?
Il progetto di recupero, condotto da Silvia Viana a partire dal 2020 sotto la direzione di Juan Bordes e giunto al termine lo scorso giugno, si avvalse in un primo tempo dell’esperienza di Lucia Ghedin dell’Istituto Centrale per la Grafica di Roma. «Nel 2022 ci illustrò il metodo ampiamente collaudato sulle matrici della loro collezione, in particolar modo su quelle del Piranesi – spiega Bordes – un processo molto sicuro per stabilizzare e rimuovere l’acciaiatura». Rimaneva tuttavia da risolvere la questione relativa all’eliminazione degli strati galvanici di nichel. Il contributo dell’Academia de San Fernando è consistito nella creazione di un innovativo protocollo d’azione che ha reso possibile anche la rimozione dello strato di nichel da 38 rami, 11 dei quali saranno esposti quest’autunno a Palazzo Reale di Milano, nella grande mostra Goya. La ribellione della ragione: 69 opere tra incisioni a stampa (19), lastre di rame (11) e dipinti (39).
Tra gli esemplari in mostra non manca la celebre acquaforte/acquatinta Il sonno della ragione genera mostri, messa a confronto con la matrice in rame. In questa incisione Goya si ritrae come «El autor sonando» (L’autore sognante) ed enuncia che «la sua sola speranza è di bandire la superstizione, l’oscurantismo, la barbarie e le più assurde degradazioni umane e di perpetuare, grazie alla fatica dei Caprichos, testimonianza della verità». I Capricci vennero pubblicati il 6 febbraio 1799; Goya si preoccupò subito di ribadire che i personaggi, i luoghi, gli episodi rappresentati in questi “scherzi” erano frutto della sua immaginazione artistica. Nonostante ciò le sue stampe di piccolo formato, in circolazione tra Toledo, Salamanca, Siviglia e fino al Messico, suscitarono un enorme scandalo. L’artista sbeffeggiava con brevi motti a commento delle immagini l’essere umano e le sue menzogne, i pregiudizi, il fanatismo religioso, i pudori sciocchi, la seduzione e la stregoneria. Nessuna classe o categoria sociale era esclusa. La Santa Inquisizione le reputò blasfeme e scandalose; solo grazie a un ordine formale del re Carlo IV a Goya venne risparmiata l’inquisizione. Dopo quattordici giorni l’artista ne interruppe frettolosamente la pubblicazione ritirandoli dalla vendita al pubblico e nel 1803, per salvare il suo lavoro, decise di offrire le 80 lastre in rame e le 240 copie stampate a disposizione del re, in cambio di una pensione per il figlio Javier.
Dalla mostra milanese emergerà la dualità pubblico/privato; positivo/negativo; miseria/nobiltà; ragione/sentimento che caratterizzò tutta la vita e l’opera di Goya e tale dualismo si rifletterà anche nell’allestimento a cura dello Studio Novembre. «Il razionalismo di Goya – spiega in catalogo il curatore Víctor Nieto Alcaide – è un metodo di indagine della realtà: da un lato è denuncia sociale, dall’altro è critica alla pittura convenzionale e accademica. In Goya l’ideale di bellezza non sta tanto nella forma, quanto nel valore plastico dell’espressione».