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 2023  luglio 23 Domenica calendario

Cent’anni di Juve

Dopo anni di vacche grasse è arrivata la carestia; la Juve che non vince più (l’ultimo scudetto, con Sarri allenatore, risale al 2020) rientra in quegli eventi straordinari, tali da evocare immagini bibliche. Certamente non lo scenario migliore per una “celebrazione”. È la logica spietata degli anniversari: le ragioni del presente tendono a offuscare le date del passato che vengono ricordate. Ed è una logica malata perché in questo caso la data, il 24 luglio 1923, coincide con una svolta che segnò per sempre la storia della Juventus e quella dell’intero mondo del calcio.
Con la presidenza di Edoardo Agnelli ebbe inizio allora quello che, per un intero secolo, si sarebbe rivelato un binomio inscindibile. Il rapporto tra la famiglia Agnelli e la Juventus si sarebbe protratto infatti per 100 anni, così da rappresentare un unicum storico, un intreccio inestricabile tra le vicende della Fiat, di Torino, dell’Italia che è arrivato fino alla dimensione compiutamente globalizzata dei giorni nostri; e questo senza mai smarrire le sue radici in un nucleo familiare al cui interno l’avvicendarsi delle generazioni si è svolto all’insegna di una partecipazione totale alla vita della società bianconera.
Nei fatti la presidenza della Juventus è stata una carica ricoperta da un Agnelli per più di trent’anni (Edoardo, dal 1923 al 1935; Gianni, l’avvocato, dal 1947 al 1952; Umberto, il dottore, dal 1955 al 1961; Andrea, il figlio di Umberto, dal 2010 al 2023) e in quelle stagioni la Juve ha vinto ben 20 scudetti (6 con Edoardo, 2 con l’avvocato, 3 con Umberto e 9 – di seguito, un’enormità statistica, esaltante per tutti tifosi bianconeri– con Andrea). Negli anni come presidenti si sono poi avvicendati uomini di valore, tutti orbitanti nell’entourage della Fiat (Catella, Grande Stevens, Chiusano, etc, …), fedelissimi all’azienda e alla famiglia e che hanno profuso nel loro ruolo tesori di energie ed entusiasmo. In questo contesto Giampiero Boniperti (che ricoprì quella carica dal 1971 al 1990), un ex grande calciatore diventato un grandissimo dirigente, resta un esempio ineguagliabile per quel suo mix di competenza tecnica ed efficienza che era una delle doti più richieste da parte di Vittorio Valletta al suo management aziendale.
Lungo questi cento anni la continuità del binomio Agnelli/Juventus ha avuto una sola pausa, proprio negli anni cruciali della seconda guerra mondiale. Dopo la tragica morte di Edoardo, nel 1935, e il breve intermezzo dell’accoppiata Craveri-Mazzonis, a partire dal 1936 e fino al 1941 la presidenza della Juventus fu affidata infatti a Emilio de la Forest de Divonne; in quegli anni– proprio attraverso il nuovo presidente– il fascismo, fino ad allora tenuto ai margini di un mondo bianconero piuttosto sabaudo e per questo senza eccessivi entusiasmi per gli inutili orpelli del regime, reiterò in modo veemente i suoi tentativi di intrusione, protrattisi almeno fino alla guerra.
Poi dal 1941 al 1947, presidente divenne Piero Dusio, titolare di una fabbrica automobilistica, la Cisitalia. Fu una fase confusa, affollata di paradossi: i giocatori bianconeri, per evitare di essere richiamati alle armi, furono precettati come dipendenti dell’industria bellica e la stessa Juventus cambiò nome chiamandosi appunto Juventus Cisitalia; analogamente, quelli del “grande Torino”, grazie ai buoni rapporti tra Ferruccio Novo (il presidente granata) e Vittorio Valletta, furono assunti dalla Fiat e la squadra si chiamò Fiat Torino, una denominazione che ancora oggi i tifosi del Toro fanno fatica a ingoiare e a ricordare.
Queste puntualizzazioni cronologiche non offuscano però la forza che si sprigiona dal binomio Agnelli/Juventus, irrorando almeno tre fasi della storia bianconera. La prima coincide proprio con l’avvento di Edoardo Agnelli e i cinque scudetti consecutivi vinti dal 1930 al 1935. Fu allora che l’industria scoprì il calcio e che il mondo del pallone fu attraversato dalla novità della discesa in campo degli imprenditori (ricordiamo che, in quegli stessi anni, Enrico Marone Cinzano diventò presidente del Torino): quello sport era un’occasione di guadagno economico ma anche lo strumento per ottenere un consenso popolare di cui avevano bisogno per legittimarsi agli occhi di un’opinione pubblica che il fascismo aveva allenato alla seduzione della propaganda.
Per la Juventus in particolare la presidenza di Edoardo Agnelli fu una sorta di “addio giovinezza”, la fine di un’avventura goliardica e giovanilistica partita, alla fine dell’Ottocento, dalla panchina di fronte al liceo intitolato a Massimo D’Azeglio. La squadra si professionalizzò, conquistò subito uno scudetto, chiamò un grande allenatore, l’ungherese Fogl Kàroly, si lanciò in faraoniche campagne acquisti e vinse, vinse tanto come mai prima di allora. Nel quinquennio di successi il nome Juventus – grazie alla radio e alla pervasività dei nuovi mezzi di comunicazione di massa- rimbalzò in tutti gli angoli della penisola; la Juve divenne la “fidanzata d’Italia”, assecondando una “nazionalizzazione” del “tifo” che fino ad allora aveva interessato solo realtà locali e periferiche.
L’altra grande fase della storia Juventina fu quella legata al boom economico e alle presidenze di Gianni e Umberto Agnelli: da un lato la squadra prima dei “danesi” (gli Hansen, Praest) poi di Charles, Sivori e Boniperti; dall’altro un’Italia che in dieci anni, tra il 1951 e il 1961, cambiò pelle, passando da paese agricolo a potenza industriale. Un percorso esaltante non solo per la Juve.
E infine i 9 scudetti vinti da Andrea Agnelli. Una sequenza di successi che appartiene a un altro calcio, a un altro mondo, al post Novecento della globalizzazione, all’allentarsi del rapporto simbiotico con la Fiat e con Torino, a una compiuta internalizzazione della squadra resa evidente dall’acquisto di una star assoluta come Cristiano Ronaldo.
Come si vede sono 100 anni di una storia in cui i momenti felici sopravanzano di gran lunga le delusioni e le amarezze e i tifosi bianconeri, come me, hanno tutti avuto molto di più di quello che hanno dato.
Ora questo anniversario può essere l’occasione buona per cambiare il registro dei nostri racconti. C’è bisogno di una nuova epica juventina, di una nuova storia che non sia più riassumibile nello slogan bonipertiano che l’importante è solo “vincere”. Forse è giunta l’ora di consegnarlo in modo definitivo al Novecento in cui fu coniato. Il confronto tra i festeggiamenti per lo scudetto del Napoli e la mestizia che accompagnò la nostra ultima vittoria in campionato è davvero impietoso. Non si tratta solo delle differenze “identitarie” che intercorrono tra Napoli e Torino; è che noi tifosi bianconeri non riusciamo più a gioire proprio per la nostra troppa sazietà. L’abitudine a vincere ha come svuotato il vecchio slogan; non ci basta più vincere, vogliamo anche divertirci come fu ai tempi di Lippi e di Conte.
La nostra epica può rispolverare gli entusiasmi giovanili che si accesero intorno alla panchina del D’Azeglio; alimentare i nostri racconti con la Juve operaia di Trapattoni o di Furino, di Bonini o di Galia; compiacersi per le gesta di John Charles, “il gigante buono”, o di Gaetano Scirea, amato e stimato da tutti come uomo e come calciatore. Il nostro passato è pieno di figure e gesti che possono ispirare questo nuovo racconto, proponendo magari una Juve meno vittoriosa ma più divertente, senza le sofferenze dei “corti musi”, dei risultati in bilico fino al novantesimo, di un gioco asfittico e sparagnino. 100 anni sono molti ma ci hanno insegnato una cosa: alla Juve serve un nuovo entusiasmo che contagi calciatori, allenatore, dirigenti, tifosi; le vittorie arriveranno dopo. —