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 2023  luglio 23 Domenica calendario

Il turpiloquio non fa scandalo

La dittatura del politicamente corretto, in Italia, è come Barbieland: si vede ma non c’è.
Chi se ne dice vittima, rilascia dichiarazioni da prigioniero politico, diagnostica una incurabile pandemia di scemenza, ripete “non si può più dire niente!”, elenca film e libri che oggi non verrebbero scritti e nemmeno pensati. E dev’essere, forse, anche per questa percezione di regime se esiste e persiste ancora l’idea che il turpiloquio sia valorosa resistenza, eccitante emersione del non detto, preziosa provocazione culturale, antidoto al perbenismo.
Diletto non censurabile, certo, ma prima d’ogni cosa vigilanza libertaria. E così il sottosegretario alla Cultura va ad inaugurare il programma estivo di uno dei più importanti musei del Paese, il Maxxi, e dice “cazzo” tre, quattro, cinque volte (si tratta, del resto, la prima delle 75 parolacce più usate dagli italiani, secondo le rilevazioni del Corpus KiParla, la banca dati dell’ingiuriarsi in Italia, ideata da studiosi delle università di Bologna e Torino, vedasi sito www.kiparla.it). E certo ci si indigna, ma in fondo si ride pure, in fondo si pensa: «e che sarà mai», che poi è il vero regime socioculturale di questo Paese, il regime E che sarà mai.
Bartezzaghi, lei che è semiologo e quindi anche antropologo, come la vede: se di parolacce ne sentiamo ovunque e sempre, è perché siamo imbruttiti, impoveriti, incattiviti o soltanto démodé?
«Siamo, prima di ogni cosa, vittime di una grande illusione: il virtuale ci fa sentire tutti vicini, conoscenti, persino amici, quindi in confidenza. Ci diamo del tu indiscriminatamente, e a questo concorre il nostro sempre più acceso giovanilismo, l’immaturità kunderiana che Francesco Cataluccio, alcuni anni fa, indicò come “la malattia del nostro tempo"».
Non dovrebbe essere il contrario, tra confidenti? E cioè più mi sei vicino, meno t’ingiurio?
«È, ancora, una questione di mancata differenziazione. La rifuggiamo perché ci siamo convinti che le differenze siano attribuzioni inautentiche e, soprattutto, espressioni ipocrite. E invece l’ipocrisia andrebbe rivalutata: aiuta a separare gli ambiti. Che nessuno sia più disposto non solo ad accettare che esistono registri linguistici diversi ma pure ad imparare a usarli, lo vedo all’università: in aula i ragazzi mi parlano con grande disinvoltura, quando mi scrivono sono impacciati, usano il passato remoto, aprono con “Salve"».
Ecco. Approfittiamo per spiegare perché il “Salve” va bandito, per favore.
«È una frase innocente, una volta si scriveva sugli zerbini. Non è buongiorno, non è ciao, va bene per tutti, e quindi non va bene per nessuno. Chi si pensa come destinatario di un Salve? Nessuno. Dillo a qualcun altro, salve, ma non a me. Io voglio un saluto che mi faccia sentire riconosciuto e non un saluto- cordone sanitario, che mi fa entrare in contatto e però mette, contestualmente, una barriera. Non so perché, poi, il Salve si sia connotato così. Le parole hanno destini strani».
E quel destino è eterno?
«No, naturalmente».
Penso all’incipit di Porci con le ali.
«Figa pelosa, bella calda, tutta puzzarella. Figa di puttanella. Erano gli anni Settanta».
Ecco. Esaltò una generazione intera. Ed è di quella generazione che fanno parte coloro che, oggi, si indignano quando Sgarbi dice “cazzo, figa”.
«Quell’incipit ruppe un tabù. Nel silenzio, qualcuno aveva acceso un trapano e perforato la strada. C’era stato un frastuono che riguardava sia i significanti che i significati. E quelle non erano parolacce dette come quelle che diceva Corrado Guzzanti quando imitava Giulio Tremonti: erano racconti della sessualità. Ora, nel discorso pubblico, a usare la parolacce in quello stesso modo, come se dovessero rompere un tabù, sono rimasti i due Vittorio: Sgarbi e Feltri. E quanti anni hanno? Sono ancora dell’idea che la parolaccia sia trasgressione».
Non sono sicura che le parolacce le dicano solo i due Vittorio.
«Una volta avevo tracciato una storia dell’emersione della parolaccia nel discorso pubblico, a partire dal “cazzo” detto da Zavattini alla radio, che fu non detto ma menzionato. E c’è differenza tra uso e menzione: uso è quando dico che il cane ha 4 zampe; menzione è quando dico che il cane ha 4 lettere. Zavattini volle dire in radio una parola che non appariva mai. Il suo punto era portare nel discorso pubblico qualcosa che non emergeva. Il suo obiettivo era la disinibizione, la cancellazione di un tabù».
Natalia Ginzburg scrisse che prima o poi avremmo rimpianto tutti i nostri tabù.
«Magari – rido – è per quello che ne stiamo istituendo di nuovi. Ora ci sono delle parole, dei vocaboli che diventano dei segnaposto, delle cartine al tornasole che dicono: se la usi, sei razzista, sei sessista. È una posizione sul linguaggio che non posso non dico approvare, ma non posso asseverare, perché la linguistica ci dice altro».
Cosa?
«Che la singola parola non ha alcun senso se non dentro un’inarcatura. Se togli la parola razza dalla Costituzione, non togli il razzismo. È esattamente il ragionamento di don Ferrante nei Promessi sposi, quando dice che la peste non può essere né accidente né sostanza e allora non esiste. Poi, però, viene contagiato e muore».
Vale anche per le parolacce? Se non avessimo “stronza” nel vocabolario, la stronza esisterebbe comunque ma non sapremmo come chiamarla?
«Dacia Maraini scrisse in una recensione che Giuseppe Berto era uno stronzo, lui la citò in giudizio, ci fu uno spettacolare processo e lei fu assolta. Una parola non ha una connotazione fissa. “Non fare lo stronzo” ce lo diciamo tra amici. E nella vita, a differenza dei social dove non c’è vita e c’è soltanto scrittura, una scrittura modesta con pretese, lo sappiamo benissimo: ci intendiamo sul modo in cui le parole cambiano a seconda del contesto».
Se anche in un museo si dicono sconcezze, dove andremo a finire, signora mia?
«All’ultimo tabù: la bestemmia. Che però, azzardo una previsione, non infrangeremo mai, o almeno non subito»
Crede che sia possibile educarci a parlare meglio?
«Quando vedi uno che dice una cosa controversa, è come se buttasse un cerino in un incendio. E quando vedi uno che s’indigna per quella cosa controversa, è come se buttasse un bicchiere d’acqua su un incendio. Vent’anni fa problematizzavamo “senatrice”, ora nessuno ci pensa nemmeno».
Dice Anais Nin: “Non vediamo le cose come sono ma come siamo”. Noi continuiamo a vedere la volgarità perché siamo volgari?
«Ci siamo abituati a pensare che occorre essere spontanei, e che la sincerità dipenda da qualcosa di spontaneao. E allora togliamo, vedendoli come ipocriti, i modi dalla civiltà.
Definisca civiltà.
«Quando da bambino ti dicono che non puoi dire ciao alla maestra, e devi dire buongiorno. Ora sono visti come orpelli e l’artista e il giornalista vicino al popolo si dilettano nel disfarsene. Ricordo quando De Crescenzo credeva che Eco non scrivesse di lui perché lui era un divulgatore e questo lo rendeva volgare, nel senso di vicino al popolo. Questa idea, che è un’idea populista, di essere vicino al popolo se parli come il popolo, ha fatto sì che la volgarità diventasse l’abrogazione della distinzione».
Manzoni con il latinorum ci ha messo in testa una fissazione inutile?
«Ma no, perché. Che le classi esistono, tuttavia, ora si vede nei consumi e non più nel linguaggio. Briatore parla come il suo giardiniere. La differenza non è nel potere della lingua ma nella forza. Nel fatto che io esprimo una forza economica che ti schiaccia».
L’intelligenza artificiale potrebbe distruggere il linguaggio, e forse anche le classi.
«Ci sono interessanti teorie sul fatto che potremo, a un certo punto, smettere di parlare per esprimerci. Nelle innovazioni dobbiamo sempre trovare un nome per quello che c’era prima. Noi non sapevamo di avere in casa un telefono fisso: era il telefono. E devi sempre rinominare quello che c’era prima. Come faremo con l’automobile? Quando la macchina diventerà un mezzo che va davvero da solo, come la chiameremo? Come potremo dirlo?». —