Corriere della Sera, 23 luglio 2023
Montanelli e l’insostenibile ignoranza degli ambientalisti
Zero carbonella. Ecco cosa sanno di Indro Montanelli i sedicenti guardiani del pianeta di «Extinction Rebellion» che a Milano hanno avvolto col nastro giallo e nero la statua del grande giornalista come «simbolo di un passato, ma anche di un presente, costruito sul mito della crescita infinita, dello sfruttamento di territori, persone, risorse». Ma sanno di cosa parlano?
D ice tutto l’articolo di fondo pubblicato sotto il titolo «Una nuova minaccia nell’Italia dei veleni», sul Corriere del 9 gennaio 1973, prima che Frank Sherwood Rowland scrivesse su Nature del buco dell’ozono e che scoppiasse la crisi petrolifera.
Eccolo, quell’articolo: «Di tutti i Paesi europei, l’Italia è il più ricco di raffinerie. (...) Perché l’Italia è l’unica nazione che non si contenta di raffinare per il proprio fabbisogno. Lo fa anche per conto di terzi. E infatti una buona metà della sua produzione viene esportata un po’ dovunque, perfino negli Stati Uniti. Non è necessario appartenere alla cerchia degli “iniziati” per capire i motivi di questo primato. Gli altri Paesi ce lo lasciano volentieri perché, come sta scritto nelle dichiarazioni dei responsabili, prima di tutto non vogliono morire avvelenati dal petrolio, il più inquinante di tutti gl’ingredienti; secondo non considerano questa attività redditizia per l’altissimo costo degl’impianti di depurazione richiesti dalla legge. Il segreto della raffinomania italiana è tutto qui. Solo in Italia questa industria assicura facili e sostanziosi utili perché è affrancata da ogni pedaggio alla pubblica salute. Essa gode di licenza di uccidere».
Parole pesantissime. Firmate dal più grande giornalista italiano sulla prima pagina del più grande giornale italiano contro le più grandi imprese avvelenatrici italiane nella più ottusa e complice ignavia della politica che non aveva la minima coscienza del degrado ambientale allora in corso. E non si trattava dell’impennata estemporanea d’un toscano bizzoso. Ma di uno dei tanti «missili», per dirla con Beppe Gualazzini, che Montanelli sparò per anni in difesa del nostro patrimonio paesaggistico, ambientale, artistico.
Contro i palazzinari: «L’Italia sarà, come dicono, la “culla dell’arte”. Ma in questa culla sgambettano i più biechi assassini del paesaggio. Sempre per quella smania di star tutti attruppati, il cemento travolge l’erba e sommerge le più belle valli e i più pittoreschi litorali». Contro la «modernizzazione» di Venezia a partire dalla demolizione di un vecchio muro a piazzale Roma prima ancora che nascesse Italia Nostra: «Qualunque colpo di piccone in questa città, anche quando è necessario, rappresenta un lutto nazionale. Si può subirlo con rassegnazione, come la morte di una persona cara. Ma celebrarlo come una festa no, non è permesso». Contro la «rapallizzazione» della Liguria: «Gli anni del boom passeranno alla storia come quelli della sistematica distruzione dell’ex giardino di Europa, perché i miliardi in mano agl’italiani sono più pericolosi delle bombe atomiche in mano ai bantu».
Contro l’egoismo familista: «Ogni italiano difende con accanimento le proprie cose. Ma nessuno di loro o quasi nessuno, difende le cose degli italiani, cioè quel patrimonio collettivo di cui nessun altro popolo al mondo possiede l’eguale. Noi ne siamo fieri solo a parole. Ed è proprio questa stupida, tronfia, vuota e retorica verbosità che mi dà noia nel patriottismo italiano». Contro l’apologia della libertà privata: «Non c’è mai stato nulla che sia riuscito a farmi dubitare della necessità di salvaguardare la proprietà e l’iniziativa private. Nulla, meno l’urbanistica delle nostre città. La loro espansione a ondate concentriche, che accumula a casaccio quartieri su quartieri, con strade ridotte a crepacci fra strapiombi di cemento, testimonia la cecità degl’interessi privati di proprietari e costruttori, il loro sadico rifiuto di ogni criterio di decenza edilizia, e scuote la nostra fede».
E ancora contro il forsennato sviluppismo «spontaneo» nel Veneto più nobile e prezioso: «Ma cosa verranno a visitare, i visitatori, quando Asolo sarà stata sommersa da un bel formicaio di grattacieli, quando le sue colline saranno irte di ciminiere, quando la sua aria sarà resa irrespirabile dai fumi delle medesime? Perché il tecnico o l’operaio di Sesto San Giovanni dovrebbero scomodarsi a venire fino ad Asolo per ritrovarvi le stesse colate di cemento, lo stesso frastuono, gli stessi puzzi, la stessa nuvolaglia di gas? Ecco a dove conduce la demagogia di certi pianificatori». E via così...
Non c’entrava un fico secco, Indro Montanelli, col «mito della crescita infinita, dello sfruttamento di territori, persone, risorse» citato oggi così, a casaccio. Da analfabeti dell’ambientalismo. E se col senno di poi è facile esprimere oggi ripulsa per il «matrimonio etiope» dell’allora ventiseienne Indro con una dodicenne (al di là del contesto storico del tutto ignorato l’ha già scritto Beppe Severgnini: «Se un episodio isolato fosse sufficiente per squalificare una vita, non resterebbe in piedi una sola statua. Solo quelle dei santi, e neppure tutte») è indecente ignorare il resto.
E cioè la strenua difesa del territorio rimasto integro («Ogni filare di viti o di ulivi è la biografia di un nonno o un bisnonno») e decine di battaglie, spesso profetiche e non di rado indigeste allo stesso mondo destrorso montanelliano, che anticiparono di decenni moltissimi dei temi oggi cari a chi invoca una svolta radicale dopo gli errori del passato.
Non capirlo ancora una volta, quando mai come oggi sarebbe invece indispensabile che certe battaglie fossero condivise, come invocò Alex Langer, al di là degli schemini politici o peggio ancora partitici, è peggio che una cretinata offensiva contro un bersaglio sbagliato. È un imperdonabile errore.