Corriere della Sera, 23 luglio 2023
La simpatia del mondo per Mussolini
Il 23 dicembre 1940, sei mesi dopo l’entrata in guerra dell’Italia (10 giugno), il primo ministro inglese Winston Churchill indirizzò un «messaggio al popolo italiano». Non sappiamo da quanti potesse essere effettivamente ascoltato. L’anno dopo, mentre ancora la guerra in Europa volgeva a favore dell’Asse e Urss e Usa erano ancora fuori del conflitto, quel messaggio fu incluso in un opuscolo di propaganda inglese dal titolo L’Italia di domani. Era stampato a Londra ma redatto in italiano, e destinato a penetrare in Italia; parallelamente uscì in inglese col titolo The Remaking of Italy (Penguin Books). In quell’appello, Churchill pubblicava, tra l’altro, lo scambio di messaggi con Mussolini del 16 e 18 maggio 1940: tentativo estremo di evitare la guerra «tra l’Italia e l’impero britannico». In quello scambio di messaggi, Churchill evocava l’errore di determinare, con la guerra, «un fiume di sangue tra i popoli di Gran Bretagna e d’Italia»; ma Mussolini rispondeva che cinque anni prima, con le «sanzioni» l’Inghilterra aveva cercato di colpire l’Italia; che nel Mediterraneo l’Italia era «in stato di servitù» rispetto all’Inghilterra; che la lealtà al patto con la Germania imponeva la scelta di fare guerra.
Nel resto dell’appello Churchill insisteva su di un unico argomento: un uomo solo, cioè Mussolini, «contro la volontà della Corona e della famiglia reale, contro il Papa e il Vaticano, contro la volontà del popolo italiano», aveva spinto il Paese nella sanguinosa e disastrosa avventura della guerra. E nondimeno concedeva al suo (eventuale) ascoltatore italiano: «Non nego che egli sia un grande uomo (sic)». E aggiungeva: con l’entrata in guerra, egli «ha tolto all’Italia le simpatie e l’amicizia degli Stati Uniti d’America».
Effettivamente, quella «simpatia» in Usa era vastissima, com’è dimostrato dalla schiacciante popolarità di Mussolini negli Stati Uniti ricavabile dalle inchieste giornalistiche degli anni Trenta (con imbarazzante distacco nei confronti di Hitler) riportate nel noto volume laterziano di John Diggins su L’America, Mussolini e il fascismo.
«Un grande uomo»: così dicendo Churchill si richiamava implicitamente alla definizione che egli stesso aveva dato di Mussolini nel 1933 in un meeting della «Lega antisocialista britannica»: «Il più grande legislatore vivente, reincarnazione del genio romano».
Nel solco di questo grande successo di popolarità planetaria del Duce (e quindi del fascismo) si colloca una vicenda durata anni e anni, ora riportata alla luce da un bel volume edito in questi giorni da Besa-Muci, editore in Nardò: Lev L’vovic Tolstoj, L’abolizione delle guerre e l’edificazione della pace. Si tratta di un corposo saggio, misto di intuizioni precorritrici e di utopismo maldestro, scritto, in francese, dal figlio minore di Tolstoj, Lev, alla fine degli anni Trenta e inviato, con lettera autografa, a Mussolini, dall’autore, allora a Uppsala, il 10 maggio 1942. Del Duce, per oltre un decennio, il Tolstoj jr era stato ammiratore e corteggiatore. Ne aveva scolpito un busto, acquistato poi – nella versione in bronzo – dallo Stato italiano con destinazione Villa Torlonia; aveva intrapreso un busto dei genitori del Duce; aveva composto una marcia militare in onore del Duce; era stato da lui ricevuto a Palazzo Venezia; ma non aveva ottenuto una pensione vitalizia, cui aspirava.
Nel volumetto edito ora da Besa-Muci, dello scritto tuttora conservato all’Archivio Centrale dello Stato (Segreteria particolare del Duce, carteggio ordinario), la prefatrice, Cinzia Cadamagnani, provetta russologa, tratteggia un profilo del singolare personaggio (1869-1945), del suo rapporto contraddittorio col monumentale genitore, delle sue vicende private, della sua esperienza di infaticabile viaggiatore (dall’America all’India, ma soprattutto frequentatore di Rodin e della sua parigina accademia di scultura; nonché di Firenze e di Roma, dove cercò di mettere radici).
Non si trattava propriamente di un isolato mitomane. Come molti in Russia, in Usa, in Francia, in Svizzera, in Inghilterra, quest’uomo guardava con ammirazione all’esperimento mussoliniano. Il 1° giugno 1939 un allora giovane, e già apprezzato, storico inglese di Roma antica, Ronald Syme, scriveva, in prefazione a The Roman Revolution, di trovare giusta la soluzione augustea di sacrificare la libertà politica in cambio di un «governo stabile» perché questo (e l’affermazione vuol avere valore generale) «evita la guerra civile e salva le classi apolitiche». Il non più giovane Tolstoj, forte anche dell’illustre prosapia, pensava davvero, nell’aprile-maggio 1942, di poter influenzare, non semplicemente assecondare, Mussolini. Gli invia il suo scritto nella convinzione che, vinta la guerra, Mussolini saprà porre mano ad un assestamento durevolmente pacifico del mondo (s’intende soprattutto dell’Europa). Parla di patto tra le «élites di tutti i Paesi», non disdegna di classificare i popoli per «razze» in un farneticante capitolo 13, pensa di coinvolgere il Duce in una neonata «Lega internazionale della rivoluzione spiritualista» (cui egli stesso ha aderito). Quando scrive, l’Asse sembra padrone dell’Europa, le truppe soprattutto tedesche assediano Leningrado, a Stalingrado la vittoria sembra a portata di mano. Ma in Africa le cose vanno male e ormai gli Stati Uniti sono entrati in guerra. E nondimeno, nonostante il peso della guerra tocchi, sul versante dell’Asse, soprattutto alla Germania, è a Mussolini che questo Tolstoj guarda come alla figura decisiva. Illusione ottica alimentata forse anche dal fatto che, strumentalmente, Hitler si fosse più volte proclamato «allievo» del Duce (era più giovane di quasi sei anni).
Il regime politico monopartitico non costituiva un tabu, né per il Churchill degli anni Trenta né per il Tolstoj jr anche oltre gli anni Trenta, tanto più che le cosiddette democrazie liberali erano, una dopo l’altra, deperite o estinte. Di qui, ad esempio, l’eccellente rapporto dell’Italia con gli Usa (cui allude anche Churchill nel discorso ricordato prima), di qui anche l’accresciuto prestigio internazionale dell’Italia al tempo del «patto a quattro» (giugno 1933), di cui l’Inghilterra di McDonald (ex-laburista) era stata magna pars e che comprendeva anche la Francia «Terza Repubblica».
In Russia, d’altra parte – dove la guerra civile non era mai finita, e anzi si era ulteriormente complicata a seguito della frattura interna al bolscevismo – la fazione, a suo tempo (1918) maggioritaria, dei «Socialrivoluzionari» (SR) aveva da molto presto guardato al fascismo italiano con intento di collaborazione operativa.
Nelle memorie dell’agente britannico Sidney Reilly (redatte dalla moglie, edite in Italia da Bompiani, 1933) viene dato rilievo alla «convocazione» dell’importante leader SR, Boris Savinkov, a Palazzo Venezia, da parte di Mussolini, ben consapevole peraltro dell’ottimo rapporto di Savinkov con i «servizi» inglesi. In un intervento, a Mosca, a un esecutivo del Komintern dell’agosto 1922 (pubblicato anni addietro su «Belfagor», 2011), Gramsci proponeva un tentativo di analisi del composito movimento fascista italiano accostandolo appunto ai «socialrivoluzionarî» russi. Né andrà trascurato come poco rilevante il movimento filo-fascista russo capeggiato da Andrej Vlasov (su cui vanno visti gli interventi di Vittorio Strada e di Ernst Nolte): militarmente per nulla irrilevante.
Il fatto è che, quando si parla di fenomeni storici, pur della portata del fascismo o del nazionalsocialismo o del bolscevismo, i toni si fanno immancabilmente e retroattivamente «giudiziarî», con inevitabile danno della comprensione storica e (effetto collaterale) con crescente ignoranza nelle generazioni più giovani: per le quali il tutto diventa un confuso «sentito dire». E viene alla mente l’ironica immagine crociana di un «Cesare ammanettato» e avviato, da storici a dir poco ingenui, in quanto demolitore della «libertà» repubblicana, ad una condanna «che non si sa dove né quando espierà» (così si esprimeva nel volume del 1938 La storia come pensiero e come azione). O, per tornare ai casi, ben più vicini a noi nel tempo, di cui qui si discorre, sarà più utile alla comprensione storica – rispetto ad una vibrante intemerata «alla memoria» – un profilo realistico di Hitler, visto innanzi tutto come avversario abile e temibile (Molotov, Memorie).
Quanto allo scritto, ora dissotterrato, del figlio di Tolstoj, difficilmente le riflessioni e proposte in esso contenute avrebbero potuto coinvolgere l’attenzione di Mussolini. Il quale sin dallo scoppio della Grande guerra e dalla rottura col socialismo ufficiale italiano, si era sempre più ritrovato nella mentalità di ispirazione irrazionalistica e volontaristica all’insegna del motto «guerra igiene del mondo». Nelle sue memorie, Tolstoj jr scriveva che la guerra «è la degenerazione dell’umano nel suo istinto animale», «un blasfemo suicidio». Un punto d’incontro era dunque impossibile. E Mussolini sarà rimasto oltretutto infastidito per la inconsueta procedura con cui l’autore gli dettava addirittura, nella lettera acclusa al manoscritto, le parole che il Duce avrebbe dovuto scrivere in una breve prefazione al volume: «Ho letto il libro di Tolstoj e trovo che molte delle sue idee sono giuste»!