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 2023  luglio 22 Sabato calendario

Come Vittorio Pozzo diventò antifascista

Sono le 14 del 27 aprile 1945. Da circa 36 ore a Torino infuria la battaglia per la Liberazione. Le strade sono piene di morti, forse 400, ammazzati da una parte e dall’altra. Camillo Venesio, direttore della Banca Anonima di Credito e un passato da calciatore dilettante nel Casale Monferrato, riesce a tirare un sospiro ottimista solo quando s’accorge che lì nei pressi c’è anche Vittorio Pozzo, che per sfuggire ai cecchini fascisti s’è trovato un riparo lungo via San Francesco, a due passi da piazza San Carlo. Quel risoluto sessantenne è l’uomo ideale per quel momento: padrone dell’arte del comando, uno con il sangue freddo anche davanti ai mitra impazziti.
Schivando i proiettili, Venesio riesce a raggiungerlo. Lo implora: «Commendatore, le Brigate nere stanno assaltando la Banca d’Italia, bisogna trovare degli uomini per difenderla... dalla Garibaldi mi hanno detto che non possono mandare nessuno, stanno per scatenare l’attacco alla caserma Cernaia. Lei qui è il solo partigiano con l’autorità per intervenire».
Il resto di questa storia sorprendente sta nelle carte conservate all’Archivio di Stato di Torino. A raccontarla, in prima persona, è proprio Vittorio Pozzo, allenatore della nazionale di calcio – anzi: commissario unico, come si diceva all’epoca – con un palmarès che nessun altro può vantare: due Mondiali, quelli del 1934 e del 1938, l’oro olimpico a Berlino 1936 e le due coppe Internazionali (antesignane degli attuali Europei) nel 1930 e nel 1935. Vittorie che hanno contribuito a rafforzare il mito dell’invincibilità del fascismo, se non addirittura a spianare la strada alle leggi razziali.
Di Pozzo è celeberrima una foto – che lo ritrae mentre fa il saluto romano – scattata alla Coppa del Mondo in Francia, pochi istanti prima dell’inizio dell’ottavo di finale contro la Norvegia. Siamo nel maggio 1938, lo stadio è quello del Vélodrome di Marsiglia: i 25 mila tifosi sono tutti antifascisti, soprattutto immigrati ed esuli italiani ma anche tanti cugini transalpini, che al suono della Marcia reale e di Giovinezza, gli inni di allora, sommergono gli azzurri – tra cui fuoriclasse come Giuseppe Meazza e Silvio Piola, poi il geniale Giovanni Ferrari, l’Andrea Pirlo dell’epoca – con bordate di fischi. Pozzo è livido di rabbia: quella contestazione, di cui è stato preventivamente informato tramite i servizi segreti del Duce, gli risulta inconcepibile. Gli azzurri sono lì per combattere una battaglia – sia pure solo calcistica – dove in gioco c’è l’onore dell’Italia e per questo tutti dovrebbero incitarli. Ecco perché, più che mai convinto che lì al Vélodrome fascismo e Patria siano la stessa cosa, sfida il pubblico ordinando alla squadra di alzare il braccio nel saluto romano. Per la cronaca, l’Italia vincerà 2-1.
Ma chi è davvero il commissario unico? Il giudizio più benevolo resta quello di Giorgio Bocca, ruvido piemontese come l’allenatore, maestro di giornalismo ed ex partigiano, che lo dipinge come «un ex ufficiale degli alpini nella Grande guerra e un fascista di regime. Vale a dire uno che apprezzava i treni in orario ma non sopportava gli squadrismi, che rendeva omaggio al monumento delle penne nere ma non ai sacrari di Mussolini».
Quel che è certo è che dal dopoguerra in poi per l’allenatore scatta una damnatio memoriae e quando, nel 1990, si discute se dedicargli il nascente stadio di Torino si preferisce il nome di «Delle Alpi» «perché Pozzo era un fascista». Un giudizio che le carte dell’Archivio, consultate da «la Lettura», obbligano a rivedere. Anzi: a ribaltare clamorosamente.

Torniamo ai combattimenti del 27 aprile. Nel rapporto su quelle ore drammatiche indirizzato a un comando della Resistenza, Pozzo – che per tutti, anche per i suoi giocatori, era il Commendatore – racconta di «essere riuscito a radunare un gruppo di cinque elementi, tutti con la fascia Cln» (il Comitato di liberazione nazionale), per raggiungere la Banca d’Italia. «Ci difettavano però le armi. Qualcuno allora disse che all’Opera Pia di San Paolo, proprio lì dove eravamo noi, doveva esserci un deposito. Battemmo alla porta – scrive Pozzo – e poi da lì e da una vicina finestra cominciarono a passarcele, grazie a un certo Murino, assieme alle munizioni. Con me c’era il partigiano Carlo Gentile con cui raggiungemmo la Banca, sotto il fuoco dei cecchini». Si combatte e si spara, tanto. Ma le Brigate nere sono costrette alla ritirata. L’Istituto, che custodisce oro e valuta pregiata, è salvo.
Il foglio in carta copiativa su cui il testo è battuto a macchina è soltanto uno tra le migliaia di lettere, documenti e foto che fanno parte dell’«Archivio Vittorio Pozzo» – donato nel 2009 ai Beni culturali dai figli dell’allenatore – stipato in una sessantina di faldoni divisi in centinaia di rigonfie cartelline intitolate da lui stesso con intestazioni così: Mondiali, Viaggi, Campionati 1943-1945, Tempo di guerra, Liberazione. Proprio quest’ultimo fascicolo contiene le prove dell’inequivocabile e convinta adesione alla Resistenza da parte di Pozzo, a partire dai lasciapassare con tanto di fotografia.
C’è però molto, molto di più. È evidente come la sua figura si stagli in uno scenario di spionaggio e vicende partigiane in bilico tra i romanzi di John le Carré e i racconti resistenziali di Beppe Fenoglio. È il Cln di Biella ad attestare, il 1° giugno 1945, che il Commendatore ha collaborato «con noi dal settembre 1943 organizzando gli aiuti ai prigionieri alleati – nei faldoni c’è un elenco sconfinato di nomi, gradi e nazionalità: Willacot, Nicholls, Dower, Moore; e private, sergeant, colonel; e England, Australia, Scotland — in fuga verso la Svizzera e, negli ultimi mesi della lotta di Liberazione, in collegamento con il rappresentante del Partito liberale di questo Cln per il servizio informazioni».
Parole dal contenuto simile le firma proprio quest’ultimo, Aldo Blotto Baldo, un industriale biellese – anche lui partigiano, anche lui ex calciatore – «latitante dal 25 luglio al 29 novembre 1943» perché ricercato dalle SS naziste: Pozzo «è stato un mio collaboratore utile e instancabile, disinteressato e attivissimo» sia per sostenere i partigiani sia per «avviare verso il confine svizzero gli evasi».
Da qui in poi si entra direttamente nella spy story. Pozzo ha contatti con l’organizzazione Franchi, la rete di intelligence badogliana fondata da Edgardo Sogno, ex ufficiale di cavalleria, rappresentante del Partito liberale nel Cln piemontese, agente del Soe britannico (il servizio delle operazioni speciali), poi diplomatico e, negli anni Settanta, prosciolto dall’accusa di tentato golpe. Il Commendatore, che nella Franchi sembra rivestire un ruolo importante, muovendosi con la circospezione di un agente operativo ha reclutato nella rete di Torino il viceconsole onorario del Portogallo, Alberto Bagna.
Questi gira per lavoro tra Piemonte e Liguria dribblando i controlli con freddezza, da perfetta spia. Staziona a La Spezia, dove, dopo l’ottobre 1944, la Wehrmacht si aspetta uno sbarco. Bagna annota «movimenti militari, postazioni, depositi, fortificazioni». Scopre che sotto il Santuario della Madonna delle Grazie, a Portovenere, i tedeschi hanno costruito un tunnel. Periodicamente riferisce a Pozzo il quale, tramite la Franchi, fa pervenire via radio le informazioni agli Alleati – magari con messaggi in codice così: «L’attesa è lunga», «Marianna è pazza», «Benito non fare i capricci», quelli che lo stesso Sogno elencò ad Aldo Cazzullo in un libro-intervista del 2000 (Testamento di un anticomunista, Mondadori) – che poi bombardano gli obiettivi segnalati.

Da un altro rapporto si scopre che il Commendatore – il racconto è sempre in prima persona – viene arrestato dai tedeschi a Ponderano, borgo nel Biellese da cui è originario e da cui, in quei tempi, faceva la spola con Torino, sovente in bici. Suo nipote Piervittorio racconta a «la Lettura» che «qui in paese i vecchi ancora oggi favoleggiano di quando mio nonno, che parlava perfettamente inglese, tedesco, francese e spagnolo, con glaciale nonchalance depistava le SS che cercavano ebrei, partigiani o renitenti alla leva: “Es ist niemand in diesem Haus”, non c’è nessuno in questa casa». Ma invece in soffitta, o nel fienile, erano nascosti i fuggiaschi.
Non è chiaro perché i tedeschi catturino l’allenatore, forse lo sospettavano da tempo. Fatto sta che torna libero dopo qualche giorno – impossibile capire chi si sia adoperato per il rilascio – e lui, «dato che mi sentivo ricercato», si nasconde poi a casa di Ferruccio Novo, il presidente del Torino di provata «fede patriottica avendo resistito, per tutta l’occupazione, alle pressioni della Wehrmacht per scendere in campo contro squadre germaniche» con cui disputare amichevoli.
Del suo arresto Pozzo accenna cautamente, il 7 aprile 1945, al segretario della Figc, Giuseppe Baldo, un ex calciatore con cui ha vinto l’oro olimpico a Berlino e che ora ha l’ufficio a Milano. È un dirigente della Rsi, dovrebbe essere di sicura fede fascista, ma le righe che il Commendatore gli indirizza aprono un altro capitolo fitto di misteri. «Da uno degli incidenti occorsi in questi giorni ne sono uscito vivo per miracolo – scrive Pozzo da Torino riferendosi alla disavventura con le SS – ma non nel senso che le ha raccontato Blotto, non al corrente».
Blotto Baldo è il partigiano biellese ricercato dai tedeschi – ricordiamolo aggiungendo pure che lo stesso cognome del segretario Figc, Baldo, è solo un’omonimia – e cosa facesse a Milano, a due passi dal Castello Sforzesco, in Foro Buonaparte 55, all’epoca sede della Federcalcio, nelle settimane che precedono l’insurrezione resta una domanda senza risposta.
L’archivio del ct – che era un giornalista, lo stipendio lo prendeva dalla «Stampa» mentre non pretese mai un centesimo dalla Federcalcio – è ordinato in ordine cronologico. Ma qui e là fornisce l’impressione che ci siano deliberate omissioni. Di sicuro c’è «nebbia» attorno ai segreti, non da poco, del tempo di guerra: non è chiaro chi lo «agganci» nella Franchi né il peso dei suoi contatti con gli Alleati. Però è certo che il commissario del Coni, Ettore Rossi, nella primavera del 1944 lo ragguaglia puntualmente dei passi effettuati – convolgendo il segretario generale (poi sottosegretario) degli Esteri di Salò, Serafino Mazzolini – nell’organizzazione di un’amichevole contro la Svizzera a Zurigo, «un contatto internazionale che per molti punti potrebbe diventare quanto mai interessante». Sono i mesi in cui, va annotato, i tedeschi, proprio in Svizzera, cominciano a trattare con gli Alleati la loro resa in Italia.
Pochi gli accenni al «campionato di guerra», quello del 1943-1944 organizzato dalle autorità di Salò per dimostrare come la vita scorra normalmente anche sotto le bombe. Eppure Pozzo lo vive da protagonista sino alla sfida finale, quella che il Torino, di cui quell’anno è allenatore, il 16 luglio perde a sorpresa con i pompieri di La Spezia, un gruppo di improbabili calciatori che all’Arena di Milano sconfigge lo squadrone di Valentino Mazzola.

Prima della partita il Commendatore va negli spogliatoi a salutare gli spezzini, giunti allo stadio con una scalcinata autobotte trasformata in corriera. Vuole complimentarsi, ma lo fa con una caduta di stile pesantissima: «Siate orgogliosi del vostro percorso, non è un dramma se oggi perderete per 3-0». I pompieri allibiscono e quando Pozzo si congeda Wando Persia, lo sconosciuto libero che di quel gruppo è il leader, gli tira una sedia. La stessa rabbia gli spezzini la mettono poi in campo, vincendo 2-1 in uno stadio spettrale: i tifosi milanesi hanno infatti paura dei rastrellamenti tedeschi – l’Organizzazione Todt vuole braccia da spedire in Germania per mandare avanti le fabbriche – e disertano le tribune.
Quando diventa antifascista Vittorio Pozzo? Difficile stabilirlo, ma certe sfumature ne danno un’idea. Dal 24 giugno 1940 – l’Italia è in guerra dal 10 – il presidente dell’Inter (o meglio: dell’Ambrosiana-Inter) Ferdinando Pozzani comincia a tartassare il Commendatore con la richiesta di un testo da inserire in un volume sulla storia nerazzurra. Pozzo non risponde, forse nauseato da parole così: «Al fascista Vittorio Pozzo», «Cordialissimi saluti fascisti», «Caro camerata Pozzo...».
All’ennesima insistenza, il cenno con cui lo distanzia, liquidandolo, è un capolavoro di asciuttezza: «Caro Pozzani, ti unisco il contributo richiesto per la monografia sull’Ambrosiana». L’interista pare comprendere il senso di quella fulminante riga e risponde abbandonando l’armamentario retorico fascista: «Caro Pozzo, grazie».
Decisive nel rifiuto del fascismo paiono essere state le leggi razziali. Quando, il 30 novembre 1938, la Federcalcio ne recepisce la sintesi inserendo un comma criminale nel suo statuto – «per essere soci nelle squadre bisogna appartenere alla razza ariana» – Pozzo non partecipa alla votazione che approva la modifica all’unanimità. Accampa la scusa – lo scopre il giornalista Dario Ronzulli che a Vittorio Pozzo. Il padre del calcio italiano ha dedicato un’attenta biografia sportiva (Minerva Edizioni, 2022) – di dover allenare la Rappresentativa lombarda contro l’Alsazia e scampa alla firma di quel disonore.
Ma c’è di più. Nell’aprile 1939 il Commendatore gira al presidente della Federcalcio, Giorgio Vaccaro – un ex ardito della Grande guerra – una richiesta spedita da Jenö Konrad, ebreo ungherese ed ex allenatore della Triestina che l’anno prima è scappato in fretta e furia dall’Italia travolta dalle leggi razziali. Il mister danubiano vorrebbe rientrare a Trieste ma solo per prendere ciò che ha abbandonato nella fuga, denaro e documenti necessari per stabilirsi in Francia. «Non intendo nel modo più assoluto fare cosa contraria alle leggi vigenti perciò attendo tue disposizioni», è il felpato appello di Pozzo. Vaccaro – un dirigente, va detto, assai capace che il Duce ha messo alla guida del pallone, silurando Leandro Arpinati, caduto in disgrazia per la sua insolente autonomia – replica che non può fare nulla. Ma forse di quelle disposizioni deve vergognarsi pure lui che le ha infilate nello Statuto e per questo scrive al Commendatore che l’ungherese «può indicare all’estero il nome della Federcalcio come referenza sulle sue capacità tecniche».
Dall’Archivio spunta pure una lettera che nel Capodanno del 1944 il presidente del Bologna Renato Dall’Ara, il funambolico inventore dello «squadrone che tremare il mondo fa», indirizza a Pozzo che gli chiede come stiano i rossoblù Amedeo Biavati, Giovanni Ferrari, Michele Andreolo e Bruno Arcari, decisivi nella cavalcata mondiale conclusa a Parigi. «In complesso stanno tutti bene» anche se di Mario Pagotto si sa poco perché «è in Germania, internato». Mancano quattro mesi alla fine della guerra ma si guarda già al futuro. Sebbene abbia «avuto tutto distrutto», Dall’Ara – un bonario imprenditore emiliano cresciuto in campagna e in grado di carambolare elegantemente dagli ottimi rapporti stretti con il fascismo a quelli successivi con i partiti della Repubblica – è ottimista e già pensa, confidandolo al Commendatore da un luogo a pochi chilometri dalla linea Gotica, «ad accingersi all’opera di ricostruzione».

Un’ultima busta conservata all’Archivio, senza intestazione, contiene tante foto in bianco e nero. A guardarle bene si scopre che sono quelle dei calciatori del Grande Torino. Toccò proprio al Commendatore – lui che aveva il cuore diviso tra i colori granata e azzurro – riconoscere le salme dopo la sciagura del Superga. Tra i volti che scorrono – Valerio Bacigalupo, Aldo e Dino Ballarin, Virgilio Maroso, Giuseppe Grezar... – ecco l’ultimo, ma è un bigliettino augurale, quello della Pasqua 1955. Lo firmano due bambini di 12 e 9 anni, Sandro e Ferruccio Mazzola. C’è scritto solo questo: «Auguri vivissimi».